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WAREHOUSE: Morphine – Intervista a Dana Colley [29]

Someday there’ll be a cure for pain, that’s the day I throw my drugs away.
Il blues, inteso come sublimazione del dolore, ha origini piuttosto lontane, da ricercare innanzitutto nelle work songs dei field hollers ai tempi della Guerra di Secessione, passando per le classiche torch songs dell’età del jazz, un po’ l’equivalente in musica di un’elegia d’amore.

Fondamentali, però, nel traghettarlo verso la modernità si riveleranno le intuizioni di Muddy Waters, il padre del blues elettrico, e l’esplosione della british invasion con i vari Rolling Stones, Yardbirds e Animals, argomento fin qui sfiorato in diverse occasioni.

Da quel momento, diverrà un elemento cardine della pop music, filtrato attraverso le istanze del rock sudista, dell’hard rock, ma anche tramite i germi del punk e della new wave grazie a gente come Birthday Party, Cramps e Gun Club, probabilmente gli ultimi a rivitalizzare un genere anacronistico nell’era dei synth. Almeno fino agli albori degli anni ’90, quando, dopo aver iniziato a sperimentare un blues singolare, piuttosto basico ma arrangiato in modo abbastanza raffinato, con i Treat Her Right, il trentottenne Mark Sandman fonderà a Boston i Morphine, band tra le più innovative del decennio completata da Jerome Deupree (batteria) e Dana Colley (sax).

Si trattava di un trio alquanto anomalo, soprattutto per il periodo, fautore di un low rock dalle inclinazioni noir che pescava a piene mani nella tradizione americana, riletta in modo incredibilmente originale da una formazione quanto mai ridotta all’osso.

Tutto ruotava intorno alle dinamiche tra il virtuoso sax baritono di Colley e le ritmiche sorprendentemente agili create da Deupree e il basso a due corde (un suo marchio di fabbrica) di Sandman, moderno crooner dai toni languidi e autore colto quanto basta da inserirsi idealmente in quel segmento di songwriter obliqui che va da Captain Beefheart al Tom Waits della Trilogia di Frank.

Sono questi i principali ingredienti della “baritone experience”, come la definì il leader, dei Morphine, l’evoluzione definitiva del blues e del jazz in un circuito alternativo dominato da chitarre distorte. Una formula messa a punto subito con grandi risultati su Good (1992), prima pietra miliare in cui la proposta minimale del terzetto mostrava una certa tendenza alla dilatazione di matrice wave mai statica o monocorde, dallo spleen soltanto apparentemente fumoso e depresso, (ri)animato dai fraseggi groovy tra sax e basso su un drumming propulsivo.

La svolta arriverà però l’anno seguente con Cure For Pain, lavoro, per certi versi, più accessibile e maturo in perfetto equilibrio tra le due anime della band: quella oscura, predominante sul debut, e quella sensuale, alimentata da una melliflua sensibilità pop libera di affiorare su arrangiamenti più incalzanti.

L’album inaugura il graduale avvicendamento tra Deupree e Billy Conway, ex batterista dei Treat Her Right presente in tre tracce su tredici, “nuovo” contraltare ritmico di un Sandman ormai perfettamente a suo agio nel ruolo di narratore tenebroso. Ma è anche il disco della consacrazione di Colley, mattatore assoluto capace di donare ulteriori sfumature, tra funambolici assoli e ricami estremamente suggestivi, a quel sound sospeso ora più denso, arricchito di organi, mandolini e chitarre.

Con oltre 400000 copie vendute, sarà il maggior successo underground del 1994, dato che spingerà i tre a cavalcare l’onda nel terzo, vibrante capitolo di una trilogia pressoché imprescindibile: Yes, uscito nel ‘95. Sarà, però, anche il canto del cigno della fase più creativa della band, prossima a salutare la Rykodisc per la Dreamworks, con cui pubblicherà l’inferiore Like Swimming (1997), penultimo atto della saga dei Morphine.

L’epilogo ha una data ben precisa: il 3 luglio 1999, a Palestrina, in provincia di Roma, dove si stavano esibendo per il festival Nel Nome Del Rock. Ma quel concerto, come è noto, non arriverà mai alla conclusione.

Mark Sandman lascerà questo mondo quella notte, stroncato da un attacco cardiaco sul palco a soli quarantasei anni, a pochi giorni dalle registrazioni del suo testamento artistico: The Night, pubblicato postumo a inizio millennio, chiaro indizio del desiderio di espandere ulteriormente il suo spettro sonoro. Seppur frastornati, Colley e Conway decideranno di portare comunque avanti la legacy, dapprima sotto il monicker Orchestra Morphine e, successivamente, con un progetto inedito: i Twinemen, con la cantante e chitarrista Laurie Sargent. Risale al 2009, invece, l’origine dei Vapors Of Morphine (sempre Colley, il rientrante Deupree e Jeremy Lions), ancora attivi dopo tre album in grado di rievocare, tra rivisitazioni del vecchio materiale, cover d’autore e composizioni originali, gli effluvi di un tempo. È il caso dell’ultima fatica in studio, Fear & Fantasy (2021), un po’ il trait d’union tra le ambizioni estensive di The Night e una nuova fase, orfana di Sandman ma guidata da chi parlava la sua stessa lingua.

In particolare, Dana Colley, protagonista di una puntata di Warehouse interamente dedicata a quell’idea di musica trasversale, che ha saputo proiettare il blues e il jazz verso il terzo millennio. È la “baritone experience” dei Morphine: semplicemente, la cura per il dolore.

Al di là di tutte le caratteristiche che hanno reso unico il sound dei Morphine, a partire dalle intuizioni di Mark, credo che il tuo sax abbia sempre recitato un ruolo essenziale nell’economia di quella formula apparentemente “monocorde”, diciamo pure così, ma in realtà ricca di groove. Come si è evoluto il tuo stile negli anni, in particolare dopo l’ingresso nella band, e quali sono le tue principali influenze?

La meravigliosa chimica tra Mark, Jerome, Billy e me nasce innanzitutto da un profondo amore per la canzone. E qual era il miglior modo per sostenere quell’idea comune? Creare un suono unitario che supportasse al meglio la canzone. E sin dall’inizio, suonare con Billy, Jerome e Mark è stata una sorta di comunicazione istantanea su come sostenere quell’unità, attaverso un suono condiviso che fosse maggiore della somma delle sue parti.

Essere un sassofonista negli anni ’70 e ’80 ti faceva sentire un po’ solo. Regnavano le chitarre e se eri un ragazzino che cercava di far parte di una band, passavi molto tempo a suonare il tamburello.

Quando Mark e io ci siamo incontrati e abbiamo iniziato a suonare, gettando le basi per ciò che sarebbero diventati i Morphine, mi è stato dato molto spazio per fingere di essere un chitarrista. Suonando durante l’intera canzone, non solo gli assoli. Mi hanno messo nella posizione di muovermi e assecondare l’ardente ambizione di trovare il mio sound.

Da solo ero semplicemente un sassofonista di terzo livello alle prese con la continua esplorazione dello spazio attraverso tentativi ed errori. Con Mark, Jerome e Billy, invece, ho avuto la possibilità e la libertà di evolvermi assieme al risultato della collaborazione con dei compagni che mi hanno avvolto con la loro ispirazione e aspirazione. Le mie influenze sono variate e si sono accumulate nel tempo, ma le principali sono state e saranno sempre due: Hendrix e Coltrane.

Raccontaci del tuo primo incontro con Mark Sandman e la sua idea di musica…

Ho visto Mark, per la prima volta, negli anni ’80, con la sua band. Sono stato subito rapito dall’anima e dalle radici delle sue canzoni, molto orientate al groove in un’epoca di suoni post-punk e new wave. Siamo diventati amici e mi ha invitato a suonare nel suo appartamento a Cambridge. Mark era il tipo di persona che voleva assolutamente essere un musicista. Iniziammo a suonare senza dirci molto. Lui aveva il suo basso a una corda, io il mio baritono e il sound fu una corrispondenza immediata. Lo spirito era molto improvvisato, ma Mark aveva altro in programma e ha iniziato a portare avanti idee per i suoi testi.

Poi si è unito a noi Jerome Deupree e siamo diventati una sorta di side-project dei Treat Her Right. Non passò molto tempo prima che registrassimo Good.

L’idea di usare solo un basso a una corda (in seguito divenute due), sax e batteria in un periodo di guitar garage band alternative ci ha dato accesso a un sacco di territori inesplorati all’interno di quella che potrebbe sembrare una cornice limitata.

Era questo il paesaggio che ha plasmato l’idea di musica di Sandman. O almeno, il modo in cui le sue idee sono state veicolate attraverso i Morphine. Ma aveva molti altri sbocchi. E avrebbe senza dubbio esplorato altre innumerevoli forme espressive se fosse sopravvissuto oltre i suoi 46 anni.

Nel 1992 avete esordito, appunto, con un debut che già racchiudeva in modo impeccabile il vostro inafferrabile stile: “Good”, tra i dischi fondamentali degli anni ’90. Che ricordi hai di quelle session?

Beh, eravamo proprio agli inizi della storia della band. Oggi, sento già un primo sviluppo nel mio modo di suonare, ma all’epoca stavo cercando di capire molte cose: come lavorare in uno studio di registrazione, come ottenere un suono con cui convivere per il resto della tua vita, come comunicare ciò che stai ascoltando a un produttore e/o a una band, l’idea di essere in uno studio con l’orologio che ticchetta e sapere che tutto costa un sacco di soldi.

Ma riesco ancora a sentire anche tutti gli altri riversare il loro cuore in ogni aspetto: dal suonare al modulare i suoni di batteria, dal mixing alla produzione su musicassetta per un’etichetta indipendente, la Accurate Distortion di Russ Gershon. Distribuire i nastri, spedirli alle radio e alla stampa.

La svolta, però, arriverà con il successivo “Cure For Pain”, primo album con la Rykodisc arrivato a vendere 400000 copie (quasi una rarità per l’epoca in ambito alternativo), da molti considerato il vostro capolavoro. E, in effetti, in quello che per me è l’eterno dualismo tra “Good” e “Cure”, credo che quest’ultimo rappresenti al meglio le due anime dei Morphine: quella più oscura e quella più sensuale. Tu cosa ne pensi?

Cure for Pain rappresenta il punto esatto in cui tutto si è unito. Suonavamo molto come una band. Le tracce sono state registrate abbastanza rapidamente. Jerome aveva deciso di lasciare il gruppo, ma aveva accettato di entrare in studio e registrare le sue parti prima di andarsene. Ti dirà che le tracce di batteria nell’album sono la prima o al massimo la seconda take. Credeva stessero ancora lavorando sui suoni di batteria quando Paul Kolderie, il nostro produttore, ha detto “Ok, ci siamo”.

Sono molto orgoglioso di quel disco. Quando abbiamo ricevuto per la prima volta i mix su cassetta, facevo ancora l’imbianchino. Li ho messi sul boom box mentre stavamo lavorando e, per la prima volta, mi sono sentito come se potessi realmente vedere il mio contributo a un progetto, senza allontanarmi rabbrividendo perché qualcosa non era venuto come volevo.

Potevo ascoltare quella musica provenire da autoradio, ristoranti e sentirmi tranquillo, come se avessimo avuto successo e fossimo stati accettati nel mondo.

Non avrei mai immaginato che avrebbe avuto l’effetto e il significato che ha avuto per molti meravigliosi amanti della musica e fan dei Morphine in tutto il mondo. Con Internet, ora, possiamo davvero vedere quella connessione ovunque ed è sbalorditivo.

Non a caso, credo sia l’album in cui il tuo sax assume davvero un ruolo predominante, non solo l’unico vero strumento solista della band ma anche il principale elemento con cui riempire lo spazio creato dalle ritmiche di Mark e Jerome Deupree (più Billy Conway). L’impressione è che godessi particolarmente proprio di quella libertà di cui parlavi prima, che fossi libero di seguire l’ispirazione, ma non vorrei sbagliarmi. Puoi parlarci del processo compositivo nei Morphine?

Mark aveva sempre una direzione in cui voleva andare, con un riff o una serie di testi. Ma io, in effetti, ho avuto tanta libertà di inventare le mie parti. Il mio obiettivo era trovare un complemento per batteria e basso, proprio come una chitarra. Le canzoni provenivano interamente da Mark. Ma portarle nell’aria e trasformarle in canzoni dei Morphine è stato frutto di un’invenzione collaborativa.

Nonostante sia un altro grandissimo disco, “Yes”, invece, non gode sempre della stessa considerazione. Come mai secondo te?

Beh, qualsiasi album successivo a Cure for Pain dovrà soffrire in qualche modo.

Dopo “Like Swimming”, per la Dreamworks, la storia dei Morphine, purtroppo, subirà una brusca battuta d’arresto il 3 luglio del 1999, a Palestrina. Che ricordi hai di quella giornata?

Quel giorno sarà impresso nella mia mente per il resto della mia vita, quindi ricordo molto.

Palestrina è una delle città più belle in cui sia mai stato. In cima a questa collina, un piccolo festival sotto i pini. Un hotel a pochi passi. Una fresca brezza serale la notte prima del concerto, per godersi un bicchiere di vino guardando a ovest e ammirando il tramonto. Una crew amichevole e l’intera popolazione come volontari. Facce felici desiderose di avere questo fantastico live.

Inizialmente, non eravamo convinti di suonare lì, ma la lettera di un fan, arrivata alla nostra manager, ha sciolto ogni riserva. Mark pensava che avremmo dovuto fermarci dopo aver suonato in un grande festival in Portogallo. Lo abbiamo fatto ed eravamo tutti felici di riposarci un po’.

Tuttavia, il giorno seguente sarebbe stato l’ultimo. Il giorno più buio della mia vita, della nostra crew, dei membri della nostra famiglia e dei nostri fan. Faceva molto caldo, intorno ai 100 gradi Fahrenheit. Il palco si stava sciogliendo. Abbiamo fatto il nostro soundcheck nel pomeriggio. Mark sembrava ansioso di suonare dato che è stato il primo a presentarsi per le prove. Lo abbiamo sentito suonare basso, charleston e grancassa con i piedi dalla piazza sopra il palco. Tutto sembrava suggerire stessimo per fare un grande show. Beh, non è successo. Ed eviterò di raccontare quei dettagli.

Già. Qual era il vostro stato d’animo mentre completavate “The Night”, album postumo pubblicato l’anno successivo?

Era un mix di depressione e l’ambizione di onorare Mark assicurandosi che il disco fosse completato e rappresentato da noi in un ambiente musicale.

Da quel momento, infatti, abbiamo avuto diverse formazioni che hanno un po’ tenuto in vita la legacy dei Morphine: Orchestra Morphine, Members Of Morphine e, soprattutto, i Vapors Of Morphine, con cui hai realizzato tre dischi in studio ricchi anche di inediti…

Dopo la morte di Mark, siamo stati costretti a mettere insieme una band che potesse rappresentare fedelmente la musica di The Night. L’album si era davvero ramificato in termini di arrangiamenti e strumentazione. Era chiaro che io e Billy avessimo bisogno di aiuto. Quindi abbiamo arruolato membri degli Hypnosonics, un side project di Mark, con Russ Gershon al sax, Tom Halter alla tromba, Mike Rivard al basso, Evan Harriman alle tastiere, Laurie Sargent alla voce, Christian McNeill alla voce, Billy e Jerome alla batteria.

Abbiamo fatto un tour negli Stati Uniti e siamo tornati al festival di Palestrina l’anno successivo.

I Vapors sono nati dallo stesso desiderio di rappresentare la musica dei Morphine, ma mettendo in chiaro un fatto ben preciso: non potranno mai esserci altri Morphine senza Mark Sandman.

Puoi parlarci dell’ultimo lavoro dei Vapors Of Morphine, “Fear & Fantasy”, uscito nel settembre 2021?

Il disco presenta Jerome Deupree da un lato e Tom Arey dall’altro. E inoltre certifica Jeremy Lyons come un mago della chitarra internazionale. Sono molto orgoglioso di Fear & Fantasy e di come suona. La Schnitzel Records lo ha pubblicato su vinile e non potrei essere più felice di averlo in questo formato. Ero rimasto deluso dall’intero processo di registrazione in streaming. Mi faceva sentire come se il tutto evaporasse in un etere digitale. Quindi è gratificante avere qualcosa che puoi tenere tra le mani.

Cosa prevede il futuro della band?

Al momento, stiamo accettando tutte le proposte di tour. Siamo alla ricerca di promoter in Sud America ed Europa. Speriamo di suonare presto anche dalle vostre parti.

 

di Francesco Sacco