“Literature is my religion, but rock’n’roll is my addiction”.
Basterebbe questa sua celebre frase a riassumere la storia di un songwriter del calibro di Elliott Murphy. Una storia in cui, parafrasando Jimi Hendrix, musica e letteratura scorrono vicine l’una all’altra, come binari paralleli, fino a incontrarsi, contaminarsi e sfociare in forme sempre più raffinate di cantautorato.
Il principale input, ovviamente, arrivò dalla scena folk del Greenwich Village, fulcro della controcultura Sixties dove mosse i primi passi un certo Bob Dylan, il cui Nobel nel 2016 sancirà definitivamente lo strettissimo legame tra quei due mondi assolutamente complementari, ma gli esempi potrebbero essere infiniti (a partire dal sommo Leonard Cohen).
Lecito, però, individuare nel menestrello di Duluth il vero ground zero di un nuovo modo di intendere il folksinger, non più necessariamente legato alle illusioni pacifiste di cui si erano fatte portavoce l’ideologia hippie e le contestazioni giovanili, tramontate ineluttabilmente sul finire del decennio.
Esaurito il suo ruolo storico, la figura del cantautore tornerà infatti in auge, tramite codici più complessi e vicini al tessuto urbano, nei primi anni ‘70, scatenando la caccia al “nuovo Bob Dylan”. Un’etichetta scomoda affibbiata anche al buon Murphy, newyorchese dall’animo errante rientrato alla base, dopo varie peregrinazioni in Europa, per un debut subito osannato da critica e addetti ai lavori. In particolare da Paul Nelson, autorevole critico di Rolling Stone che nel 1973 estenderà il paragone a Lou Reed e persino Francis Scott Fitzgerald.
Già, perché Aquashow, nonostante la sua giovanissima età, presentava un songwriting già piuttosto maturo, che mescolava sapientemente folk elettrico, elementi glam e un background letterario non comune imbevuto di cultura pop. Il quasi anthem Last Of The Rock Stars, l’omaggio a Marilyn Monroe in Marilyn, gli echi velvettiani (fase Loaded) di Hangin’ Out, l’emblematica Like A Great Gatsby: sono tutti episodi paradigmatici, utili a definire uno stile quanto mai personale in grado di proiettare quel disco tra i grandi classici del periodo.
Tutto lasciava presagire Elliott Murphy potesse essere la next big thing del cantautorato americano, al pari dell’amico Bruce Springsteen, quell’anno alle prese con The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle, ma le cose non andranno esattamente così. Non in termini prettamente mainstream, almeno.
Questione di fortuna, forse, o magari di sliding doors che non sempre portano nella giusta direzione, difficile dirlo. Di certo, quei sogni rock’n’roll, seppur ridimensionati, non sono mai svaniti, protetti dalla stessa luce verde che ha guidato anche quel novello Jay Gatsby, album dopo album, verso la costruzione di un culto ancor oggi celebratissimo.
Soprattutto in Europa, dove risiede in pianta stabile da oltre trent’anni complice l’infatuazione per Parigi, a quanto pare città ideale per metter su famiglia e proseguire quel discorso mai interrotto attraverso romanzi e, naturalmente, dischi.
Come Wonder, ultima fatica nata durante il lockdown e pubblicata il mese scorso. O come Aquashow Deconstructed (2015), riproposizione in chiave più intima di quel grande capolavoro, capace di donare ulteriori sfumature a una manciata di canzoni semplicemente senza tempo. D’altronde, tutto è partito da lì, da quell’esordio fulminante, primo atto di una carriera straordinaria raccontata dallo stesso Murphy in questa nuova puntata di Warehouse.
Ma la nostalgia non c’entra, no: è soltanto la “maledizione” di chi, come diceva Fitzgerald, continua a remare, risospinto senza posa nel passato. Basta non esserne inghiottito. Like A Great Gatsby.
Partiamo proprio dall’inizio di questa storia lunga praticamente cinquant’anni, da un classico immortale come “Aquashow”, tuo debut uscito nel 1973 che ti valse subito la pesante etichetta di “nuovo Bob Dylan”. Ti saresti mai aspettato un’accoglienza simile mentre registravi l’album?
Onestamente, l’intero confronto con Bob Dylan, sorto come un vortice mediatico una volta pubblicato Aquashow, mi ha colto di sorpresa. Primo, perché non pensavo di suonare molto come lui e le nostre voci erano abbastanza diverse; secondo, perché non ero al corrente del fatto che così tanti giornalisti di musica rock, in America, stessero inconsciamente cercando un nuovo cantautore in grado di prendere temporaneamente il posto di Bob, soltanto perché non era così attivo nei primi anni ’70, o almeno non così attivo come volevano i suoi fan.
“Blonde On Blonde” è stato un capolavoro, non c’è mai stato niente di simile prima o dopo, ma poi Bob è andato in una direzione completamente diversa con il minimalista (ma comunque brillante) “John Wesley Harding”, confondendo tutti su chi fosse realmente. O almeno, tutti tranne Jimi Hendrix, che ha riconosciuto il potere e la gloria in “All Along the Watchtower” quando l’ha registrata.
La verità è che i critici rock tendono a scrivere più sui testi che sulla musica, perché è molto difficile descriverla in modi che le persone possano comprendere, o con cui possano relazionarsi. Prima che Dylan arrivasse e cambiasse le regole del gioco, c’erano pochissimi testi di canzoni interessanti nel mondo della musica popolare. Anche i primi Beatles erano roba basilare e tradizionale, e io ero influenzato prevalentemente dagli autori in quanto cantautore, dunque credo che l’unico metro di paragone fosse Bob Dylan.
Ma questo era un problema, soprattutto in fase di promozione, perché avere testi più complicati era un handicap se si trattava di essere trasmessi dalle radio FM del periodo. Ricordo benissimo, ad esempio, la preoccupazione del dipartimento di promozione della Polydor quando dovettero spiegare i testi di Aquashow ai direttori dei programmi radiofonici, perché non avevano tempo per queste cose!
Ma tornando alla tua domanda, la cosa interessante è che nessuno dei “nuovi Bob Dylan” si somigliava né liricamente né musicalmente. Ascolta John Prine, Louden Wainwright, Bruce Springsteen e me: siamo tutti così diversi l’uno dall’altro, e lo stesso vale per Tom Petty.
Naturalmente, qualsiasi cantautore moderno deve stare in una certa misura all’ombra di Dylan, allo stesso modo in cui qualsiasi pittore modernista viene paragonato a Picasso. Ma ero l’unico a indossare un’armonica su un supporto da collo, quindi ricordavo la fase Highway 61 più degli altri e nel mondo della cultura pop l’immagine è tutto.
Ma come dice lo stesso Bob, devi servire qualcuno e io ho fatto del mio meglio per servire la sua causa.
Nonostante il paragone con Dylan, “Aquashow” credo sia il frutto di un songwriting molto originale, che mescolava folk elettrico ed elementi glam. Per certi versi, lo definirei un album molto New York Underground, ecco. Com’era la scena newyorchese del periodo? Quanto c’è di quella di New York sul disco?
New York ha sempre avuto una scena musicale molto varia e in rapida evoluzione. Negli anni ’50, avevi il doo-wop di gruppi vocali come i Coasters, poi c’è stato un boom di musica folk nei primi anni ’60 con Peter, Paul e Mary e successivamente sono arrivati il folk-rock con i Loving Spoonful, il glam rock con band come i Kiss e infine la rivoluzione punk giù in quella topaia del CBGB.
Ma poco prima di registrare “Aquashow”, avevo scoperto i Velvet Underground (secondo me, la band di New York per eccellenza, anche se la maggior parte dei membri, con l’eccezione di John Cale, erano di Long Island come me), perché dopo essere tornato dall’Europa nel 1972, ho iniziato a frequentare il dietro le quinte del Max’s Kansas City (un iconico club di New York che attirava artisti, scrittori e musicisti) e gli hipster parlavano con riverenza di Lou Reed, come se fosse il santo patrono del centro di New York.
Dunque, mi sono imbattuto nei Velvet Underground molto tardi e ho iniziato realmente il mio viaggio con il loro ultimo vero album, Loaded, probabilmente il disco più rock ‘n roll che avessero mai realizzato, e l’ho adorato.
Canzoni come Sweet Jane, Rock & Roll e New Age suonavano come classici nel momento in cui li ascoltavi, e i testi di Lou Reed erano poetici, intelligenti, cinici e romantici allo stesso tempo. Poi, per puro caso, Paul Nelson (che era uno dei critici rock più famosi dell’epoca e lavorava alla Mercury Records) mi chiese di scrivere le note di copertina per Live 1969, sorprendentemente prima che registrassi qualcosa di mio. New York, inoltre, a quel tempo, era immersa nella “glam-mania”.
L’epicentro di quel movimento erano i New York Dolls e le persone venivano ai loro spettacoli in massa. Quindi, i primi anni ’70 furono un periodo molto eccitante per cercare un contratto, bussare alle porte delle case discografiche a Broadway e suonare nei club del Greenwich Village, perché il mondo della musica era affamato di nuovi talenti e il passaggio dal soft rock di cantanti-cantautori come il grande James Taylor a qualcosa di nuovo e più spigoloso era nell’aria.
Ma vedi, non sono mai stato un cantante folk come la maggior parte dei cantautori venuti prima di me, perché ho sempre cantato e scritto le mie canzoni con un’attitudine rock ‘n roll. E Aquashow è stato il risultato di quel songwriting: un lavoro sincero, innocente e cinico, proprio come New York.
Quando uscì il tuo debut, avevi soltanto 24 anni, eppure parliamo di un album già incredibilmente maturo, ricco di riferimenti a cultura pop e letteratura, in cui si respira un forte senso di nostalgia, persino nei pezzi più trascinanti, come l’anthem “Last Of The Rock Stars”. Cosa volevi raccontare attraverso le canzoni di “Aquashow”?
Più di ogni altra cosa, volevo raccontare la mia storia e usare la musica come veicolo per quel bisogno in modo quasi catartico. La mia storia fino a quella giovane età, si intende, ma avevo molto da togliermi di dosso, per così dire. Avevo bisogno di esprimere la tragedia della perdita di mio padre, dell’essere senza radici e senza direzione in periferia, dei miei sogni di salvezza, tutti avvolti in un rivestimento d’argento rock ‘n roll.
I primi album sono veicoli preziosi perché spesso decidono la strada che prenderà il resto della tua carriera, quindi sapevo bene non potesse esserci nulla di “datato” nel suono dell’album che alla fine avrei fatto e presentato al mondo.
Volevo che Aquashow avesse un suono classico e quando il primo produttore con cui ho lavorato a Los Angeles, dove mi aveva mandato la Polydor, si è rifiutato di farlo, sono tornato a New York e, con l’aiuto del mio eccellente produttore (nonché A&R Man Polydor) Peter K. Siegel, abbiamo realizzato un classic album al di là dei miei sogni più sfrenati, di cui si parla ancora oggi quasi cinquant’anni dopo.
Ecco, come è nata, invece, l’idea di “decostruire” quel disco apparentemente intoccabile oltre quarant’anni dopo? Che sensazioni hai provato nel reincidere quelle canzoni, seppur in veste più intima, per “Aquashow Deconstructed”?
Penso che tutti meritino una seconda possibilità, incluso Aquashow e tutte le canzoni che ci vivono. Nei decenni trascorsi dalla registrazione iniziale, avevo eseguito molti dei brani di quell’album centinaia, se non migliaia di volte. Una canzone come Last of the Rock Stars fa parte del mio DNA ora che la canto quasi ogni sera, quindi, con il passare degli anni, ho potuto vedere come quella e molte altre canzoni si siano evolute sia musicalmente che emotivamente, continuando ad evolversi.
Quando ho deciso di fare una nuova versione di “Aquashow”, con nuovi arrangiamenti e strumentazione, ho scelto di intitolarla “Aquashow Deconstructed” perché ho portato quelle dieci canzoni alla loro essenza. E le ho ricostruite in qualsiasi direzione ritenessi adatta all’artista che sono oggi e allo Zeitgeist in cui sta nuotando la cultura.
Non è stato un remake o una riedizione dell’album originale, ma piuttosto un’opportunità per far sbocciare quelle canzoni in un giardino diverso e moderno, con un giardiniere molto più anziano. Sapevo sin da subito che il mio approccio vocale sarebbe stato differente e, se ascolti attentamente, puoi sentire una traccia di rimpianto e (spero) un sacco di esperienza nel mio canto in Aquashow Deconstructed, per non parlare del fatto che la mia voce è significativamente più bassa rispetto ad allora, il che è naturale.
Il produttore era ovviamente mio figlio Gaspard Murphy (che ha anche prodotto il mio nuovo album, Wonder, e ha una sua carriera di successo nel mondo della musica francese) ed è stato molto emozionante per me cantare How’s the Family, che è stata scritta molto prima della sua nascita, con lui lì, in piedi nello studio: un giovane con una chitarra piena di sogni, come lo ero io nel 1973. Se ci fai caso, puoi sentire la mia voce spezzarsi in un paio di occasioni.
A proposito di riferimenti letterari e nostalgia, è nota la tua grande passione, tra gli altri, per Francis Scott Fitzgerald, come testimoniato anche da titoli inequivocabili quali “Like A Great Gatsby” o “Lost Generation”. Quanto ha influito la sua visione quasi crepuscolare di un’era, quella dell’età del jazz, nello sviluppo della tua poetica?
Sono diventato maggiorenne, almeno culturalmente, nei turbolenti anni ’60, mentre infuriava la guerra del Vietnam e noi hippy dai capelli lunghi rifiutavamo i valori dei nostri genitori, fumavamo erba e pensavamo in comune sperando di entrare in una pacifica Age Of Aquarius, come nella canzone del musical Hair.
Bene, come tutti sappiamo, non è successo, ma gran parte dell’idealismo e della gioia di quel tempo sono rimasti con me. Ho anche visto molti parallelismi tra anni ’60 e ’20, un decennio a cui, come dici tu, Fitzgerald è legato in modo indissolubile nell’immaginario collettivo.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, anche la cosiddetta Generazione Perduta di Fitzgerald rifiutò i valori dei genitori, fino a scatenarsi con la repressione del Proibizionismo. Fu allora che la grande musica jazz iniziò a nascere, proprio come il rock classico nacque negli anni ’60.
Più significativamente, entrambe erano epoche in cui la giovinezza guidava il passaggio culturale dal vecchio al nuovo e io sono stato travolto, come la maggior parte della mia generazione, da quella marea di cambiamento. Forse non abbiamo ottenuto tutto ciò che speravamo, ma abbiamo alzato il livello di consapevolezza fin dove è oggi. E come diceva Fitzgerald, siamo andati avanti, nel passato.
Con un background simile e una penna così colta, inevitabile, prima o poi, cimentarsi nella stesura di un romanzo, cosa che hai fatto con una certa frequenza a partire dal racconto “Cold and Electric” nel 1977. Come è stato confrontarsi con altri tipi di scrittura?
Fino a quando non ho ottenuto un contratto discografico, non sapevo davvero se il mio destino fosse quello di essere un autore di romanzi e racconti, seduto a casa davanti a una macchina da scrivere solitaria, o un musicista professionista costantemente in viaggio. Bene, in un certo senso sono successe entrambe le cose.
Trovo ancora un sacco di tempo per scrivere e spero di continuare a fare musica finché potrò salire sul palco. Guarda Paul McCartney e Bob Dylan: nessuno si arrende!
Anni fa, in un programma televisivo spagnolo, quando mi è stato chiesto come mi sarei descritto, ho risposto “La letteratura è la mia religione, il rock ‘n roll è la mia dipendenza” e quel credo è rimasto valido per me fino ad oggi. Sinceramente, ho bisogno di entrambi e li rispetto entrambi, anche se, per qualche motivo, preferisco andare in libreria che nei negozi di dischi… quando i negozi di dischi esistevano ancora! Ma si sono sempre mescolati tra loro.
Cold and Electric è stato pubblicato per la prima volta su Rolling Stone nel 1980 e fu uno dei primi pezzi di narrativa mai apparsi su quella rivista. E non si trattava soltanto di finzione, perché era anche la storia piuttosto unica di un musicista rock. Tuttavia, a quel tempo, c’era parecchia resistenza da parte degli editori tradizionali a pubblicare un romanzo rock, perché credevano che i lettori seri non fossero interessati a quella sottocultura. Alla fine, con l’aiuto dell’editore di Jann Wenner, ho trasformato quel racconto in un intero romanzo, “Marty May”, pubblicato nelle edizioni francese, spagnola e tedesca. Penso che qualcuno come Quentin Tarantino dovrebbe trasformarlo in un film!
A proposito di film, sin da giovanissimo, hai viaggiato molto, stazionando anche a Roma, dove hai incrociato la strada di Federico Fellini grazie a una breve apparizione in “Roma”. E in effetti, spesso la tua scrittura è caratterizzata anche da una certa componente cinematica comune a molti songwriter della tua generazione (penso al tuo amico Bruce Springsteen o a Warren Zevon). Quell’incontro ha un po’ cambiato il tuo modo di scrivere canzoni?
Incontrare Federico Fellini a Cinecittà e lavorare in un suo film, Roma, doveva inevitabilmente essere un’esperienza in grado di cambiare la vita a un ragazzo appena scappato dai sobborghi apparentemente infiniti e noiosi di Long Island saltando su un jumbo jet Pan Am e atterrando ad Amsterdam, viaggiando poi in treno per Bruxelles, Parigi e infine Roma. Il tutto in pochi mesi.
Quel viaggio nel 1971 è stata la mia prima volta in assoluto fuori dagli Stati Uniti e mi ha davvero cambiato in modi profondi. Ed è anche, in buona parte, il motivo per cui ho vissuto a Parigi negli ultimi trentadue anni.
Ricorda, avevo solo ventidue anni quando sono venuto in Europa e, magicamente, il vecchio mondo è diventato il mio nuovo mondo, lasciando tutti i miei dolori e dubbi in America. Quando sono arrivato, Roma era ancora in un’epoca d’oro per il cinema e ho pensato di diventare un attore, ma la musica continuava a tirarmi indietro, anche perché Keith Richards mi piaceva più di Marlon Brando come modello.
Ma ad oggi sono ancora un fanatico del cinema e durante il confinamento COVID ho visto anche due film al giorno. Non posso affermare che tutte le mie canzoni abbiano una componente cinematografica, ma molte probabilmente sì. A Hollywood si dice che se hai una buona sceneggiatura, puoi fare un buon film e molte delle mie canzoni, a volte, sembrano essere proprio il contorno di una sceneggiatura, con una colonna sonora musicale di accompagnamento, per un film ancora da girare. Un buon esempio è la titletrack di Lost Generation, il mio secondo album, che inizia con: “La madre del fuorilegge pensa a quando ha avuto gli orecchioni…”.
Proprio di recente, qualcuno ha scritto su Facebook che questa frase suona come l’incipit di un racconto. Ma per me descrive la scena iniziale di un film, in cui un fuorilegge, forse un criminale o una vittima di persecuzioni politiche, giace ferito da colpi di arma da fuoco, in una strada piovosa, e sua madre gli tiene la testa, cercando di capire dove sia iniziata tutta questa follia, riflettendo anche sulle malattie dell’infanzia, quando si prese cura di lui. Forse quel fuorilegge è Mickey Rourke… insomma, capisci come funziona la mia testa? Sento le mie canzoni come colonne sonore di film non realizzati, magari come Bruce o Warren Zevon, e questo è un tipo di songwriting che sfugge a ogni descrizione.
Dovendo, però, individuare due città a cui hai legato maggiormente il tuo nome, nominerei New York, dove sei cresciuto artisticamente, e Parigi, dove vivi, appunto, da oltre trent’anni (penso, non a caso, all’album “New York/Paris”). Eppure, sembrerebbero due città così diverse…
Certamente, la cultura francese, con secoli della sua gloriosa storia che mi circonda ogni giorno, in ogni strada di Parigi, può far sembrare la cultura americana una sorta di adolescente selvaggio pieno di jazz di New Orleans, rock ‘n roll di Memphis e macchine da sogno di Hollywood, ma le due città non sono così diverse. In effetti, trovo che Parigi sia più simile a New York che a Londra o Milano, ad esempio, solo per l’energia che condividono entrambe.
I parigini hanno sempre fretta e non hanno molta pazienza quando la vita rallenta a causa di un ingorgo o di uno sciopero ferroviario e i newyorkesi iniziano a suonare il clacson appena la luce passa dal rosso al verde. Muoviti! Personalmente, Parigi mi si addice molto perché dal punto di vista estetico è veramente bella in ogni stagione, anche quando piove.
Una volta, prima di trasferirmi qui, ho incontrato Malcolm McLaren (il defunto manager dei Sex Pistols) e mi ha detto che dovevo trasferirmi a Parigi, perché è l’unica città in cui un poeta può vivere. Forse aveva ragione. Posso camminare per le strade di questa città (dove ho vissuto molto più a lungo di New York) perso nella mia immaginazione, scorrendo i testi nel mio cervello, per ore, senza annoiarmi.
Onestamente, non ho mai trovato New York particolarmente bella (anche se da lontano, quando arrivi in aereo, è davvero sbalorditiva) ma l’energia è molto positiva, a differenza di qualsiasi altro posto in cui sia mai stato. O almeno era così quando ero giovane, ambizioso e leggevo per affrontare qualsiasi cosa la vita mi riservasse.
A Parigi, ovviamente, hai continuato a produrre con una certa continuità anche ottimi dischi, fino ad arrivare a “Wonder”, uscito il mese scorso e composto quasi interamente durante la prima ondata pandemica. Quanto ha influito ciò che stavamo vivendo su quelle canzoni?
Quando il Covid ha colpito per la prima volta, mi ha davvero tolto l’ispirazione e ricordo di aver detto a mia moglie Françoise che non pensavo avrei mai scritto un’altra canzone. Lei mi ha guardato, ha scosso la testa e ha detto: “Elliott, devi avere speranza!”. Beh, le sue parole devono aver piantato un seme dentro di me, perché subito dopo ho scritto la traccia di apertura di Wonder, Hope (In Your Eyes), e ho capito che era l’inizio di un nuovo album.
Dopodiché, una volta revocata la reclusione, mi sono messo al lavoro con il mio fedele chitarrista Olivier Durand, abbiamo co-scritto altri brani e ho trovato una sorta di flusso di coscienza nei miei testi.
Ci sono molte immagini della mia giovinezza che spuntano fuori in queste nuove canzoni, alcune molto personali. Forse, un giorno, dovrei scrivere un codebook a “Wonder”, per spiegare tutti i segreti nascosti al suo interno. La registrazione dell’album è durata più di un anno. Ci siamo presi tutto il tempo per arrangiamenti e sovraincisioni, sebbene molte delle voci provengano dai demo originali.
Ma dai primi giorni in studio sapevo che avrei chiamato quest’album Wonder. E sapevo come sarebbe stata la copertina, con la mia firma che circondava il titolo. È la prima volta che succede. Finora, la reazione al disco è stata… WONDERful! Meravigliosa!
A proposito di lockdown, quanto è stata dura, per un uomo sempre on the road come te, non poter andare in giro a suonare dal vivo? Cosa che, invece, farai con “Wonder”, suppongo…
Beh, in questa vita devi stare attento a ciò che desideri, perché ci sono state diverse volte in cui, dopo essere stato on the road, mi sentivo davvero esausto, per quanto realizzato, e avrei voluto dire a mia moglie che sarei rimasto a casa per un po’ prima di tornare in giro. Poi, è arrivato il Covid e sono rimasto a casa per oltre un anno! Ma anche durante quel periodo stressante, sapevo che ne saremmo usciti e, in qualche modo, avrei continuato a tenere concerti e incontrare i miei fan, quindi ho dovuto trovare un metodo per mantenere la mia voce in forma e non lasciare che i calli della chitarra scomparissero dalle mie dita.
Così, durante i periodi di reclusione, ho iniziato a produrre una serie di Corona Couch Concerts trasmessi su Internet ogni notte, in cui cantavo alcune canzoni, parlavo e mi connettevo con i miei fan in tutto il mondo tramite lo streaming di Instagram e Facebook. E sorprendentemente, ne abbiamo fatti ben 94, raggiungendo migliaia di fan, vecchi e nuovi, ovunque. Era un modo per essere in viaggio durante la pandemia senza mai uscire di casa.
Adesso gli spettacoli stanno iniziando a tornare e non vedo l’ora di suonare le canzoni di “Wonder” dal vivo. Vedi, è un ciclo senza fine: prendo la chitarra o mi siedo al pianoforte, inizio a suonare qualcosa e una canzone inizia miracolosamente a prender forma dai miei scarabocchi musicali.
Poi voglio finire quella canzone, metterci le parole (anche se a volte le parole vengono prima) e portare tutto in uno studio di registrazione con altri musicisti. Così, in qualche modo, inizia a materializzarsi un album, che è la tela musicale su cui dipingo da quasi cinquant’anni. E quando l’album è uscito, voglio suonare quelle canzoni per un pubblico dal vivo. E mentre suono dal vivo, comincio a scoprire altre nuove canzoni nascoste nella buca della mia chitarra e il ciclo ricomincia. È una benedizione!
In chiusura, c’è un album, all’interno della tua discografia, a cui sei particolarmente legato che secondo te avrebbe meritato maggior considerazione?
Penso che il mio terzo album, Night Lights, non abbia ottenuto l’attenzione che meritava appena uscito, perché il punk era agli inizi e i media erano più interessati all’esplosione di quel movimento, mentre i cantautori come me stavano andando fuori moda.
Non si può negare che Night Lights sia la quintessenza della qualità di New York City: da me in piedi, con le gambe divaricate a Times Square, nella foto di copertina (ho recentemente donato gli stivali alti neri indossati in quella foto al Long Island Music Hall of Fame Museum) alla traccia di apertura “Diamonds By The Yard”, che parla delle seducenti luci notturne di New York viste dalla finestra del mio appartamento, a “Decodance”, ispirata dal mio amico e mentore Lou Reed (con il brillante Billy Joel al piano), a “Rich Girls”, sulle debuttanti stile Fitzgerald di cui mi sono innamorato nel demi-monde di Manhattan, a “Never As Old As You”, che parla un po’ della vita che ho lasciato in periferia.
Secondo me, non c’è una canzone debole sul disco e You Never Know What You’re In For, divenuta una delle preferite dai fan ai concerti, presenta anche l’incredibile bassista jazz Richard Davis, che ha suonato, tra gli altri, in Astral Weeks di Van Morrison.
Night Lights è il mio album più gershwiniano e, dopo tutti questi anni, ne sono molto orgoglioso.