Tryin’ to remember the days of wine and roses…
Sono ormai passati quasi quarant’anni dal leggendario debut dei Dream Syndicate, The Days Of Wine And Roses, primo atto di una carriera che, dopo i fasti degli anni ’80, ha toccato nuovi vertici nel comeback del 2017, culminato nello psych-jazz di The Universe Inside. È questo (almeno per il momento) l’ultimo spiazzante capitolo di un processo di recupero della psichedelia con ben pochi eguali, capace di gettare le basi del Paisley Underground e trascenderne i canoni in una seconda fase assolutamente distante dalla mera operazione nostalgica.
How Did I Find MySelf Here?, attesissimo ritorno arrivato dopo un’intensa attività live, aveva già mostrato un gruppo in grande spolvero, memore del passato ma affatto imbrigliato nei suoi cliché, mentre These Times lasciava intravedere il desiderio di nuove forme espressive, sempre filtrate attraverso la lente deformante della psichedelia.
Ambizioni che trovano pieno compimento nell’antimateria di The Universe Inside, sorprendente risultato di un’unica session di improvvisazioni notturne in cui trovano spazio il kraut rock dei Can, il jazz elettrico di Miles Davis, il funk di Sly And The Family Stone, l’art rock dei Roxy Music e persino echi della scena di Canterbury nella sua incarnazione più obliqua: i Soft Machine di Robert Wyatt.
Un immaginario sonoro apparentemente diverso ma legato all’era classica della band da un fil rouge nemmeno troppo sottile, da quella psichedelia “tentacolare”, per citare il leader Steve Wynn, divenuta il ponte ideale tra avanguardia e retroguardia. Perché, a conti fatti, nasce tutto da lì: da pietre miliari come The Days Of Wine And Roses e Medicine Show, dove la componente psych era attraversata da una spigolosità paranoide figlia del punk e della new wave più chitarristica dei Television, scenario perfetto per gli incubi metropolitani tra noir e hard boiled di Wynn, uno dei pochi cantautori in grado di “far sanguinare i versi delle sue canzoni”.
Quella formula non esulava però da un certo approccio free jazz, una tendenza alla jam che spesso sfociava in trip lisergici folgoranti (John Coltrane Stereo Blues), soprattutto dal vivo (Live At Raji’s).
Ed è qui, infatti, che vien fuori la vera indole dei Dream Syndicate, tipicamente californiana nel trasformare una semplice canzone in trance ipnotiche free form, quanto urbana nell’indagare quelle nevrosi di cui si fecero già portavoce i Velvet Underground. Un palco frequentato in modo quasi compulsivo, anzitutto da Wynn, reduce da un lungo tour europeo in solitaria che ha segnato il suo ritorno on the road dopo quasi due anni di stop forzato. L’occasione ideale per incontrarlo e rivivere insieme i giorni del vino e delle rose, tra passato, presente e futuro.
Partiamo dalla tua vita sul palco, probabilmente una delle tue attività preferite. Come è stato tornare, finalmente, a esibirti in giro per il mondo dopo lo stop forzato causa pandemia?
È stato fantastico e, hai ragione, è una delle cose che preferisco fare come musicista. C’è qualcosa nella spontaneità, nelle infinite possibilità e poi nell’opportunità di pulire la lavagna e ricominciare da capo la notte successiva che è piuttosto eccitante. E poi, il viaggio, la possibilità di ritrovare vecchi amici e farsene di nuovi, affacciarsi alla finestra e lasciarsi ispirare dal paesaggio in continua evoluzione ma, soprattutto, dalla casualità di ogni giorno. Tutte cose che mi sono davvero mancate. Conosco molti musicisti che vedono il tour come un male necessario, qualcosa che devi fare per “mantenere il tuo lavoro”, ma a me è sempre piaciuto e questo è stato il periodo più lungo che ho passato senza suonare, o andare in tournée, da quando avevo 21 anni .
Sei reduce da lungo tour europeo con ben 14 date in Italia, di solito tappa fissa anche con i Dream Syndicate. C’è sempre stato un feeling particolare con il nostro Paese, anche negli anni ’80, o è nato successivamente?
Ho amato tutto dell’Italia da quando ho suonato lì per la prima volta nel 1986, e sono fortunato e grato che il sentimento sia stato ricambiato nel corso degli anni. Il rapporto tra un musicista e il pubblico è un po’ una cassa di risonanza, come molte cose nella vita, e più entusiasmo trovi, più ricambi. Alimenta il fuoco e migliora ogni volta.
A proposito di Dream Syndicate, nel 2020 avete pubblicato “The Universe Inside”, quasi un punto di rottura con qualsiasi cosa abbiate fatto precedenza. Un album che rappresenta una svolta oserei dire radicale, dopo gli indizi disseminati in “These Times”, nel segno di uno psych-jazz spiazzante. Pensi sia questa l’evoluzione definitiva del Paisley Underground secondo i Dream Syndicate?
La storia dei Dream Syndicate non ha mai previsto alcun tipo di affermazione definitiva o punto di arrivo, abbiamo semplicemente accostato il nostro modo di vedere le cose e di avvicinarci alla musica a qualunque suono ci stesse eccitando in quel momento. A volte si tratta di brevi e compatte esplosioni di canzoni pop, a volte sono esercizi più lunghi e tentacolari.
The Universe Inside è stato sicuramente il caso più estremo, questo è certo, ed è uno dei miei dischi preferiti.
Penso che The Dream Syndicate Mach II, come ci piace chiamarla, abbia fornito più sentori di psichedelia di quanto non abbiamo fatto in passato ed è una musica che tutti nella band si divertono davvero a fare.
Tra l’altro, quasi paradossalmente, parliamo del maggior successo della band, di un album entrato per la prima volta nella vostra storia in una classifica Billboard. Ti aspettavi un’accoglienza simile?
Non sono mai sicuro di cosa aspettarmi, ma è stata una bella sorpresa. Vorrei solo che potessimo andare a suonare l’album dal vivo, e spero che ciò accada a un certo punto. Ma è sicuramente un segno – e anche il risultato di un duro lavoro – che la musica che stiamo facendo adesso venga presa sul serio come quella che abbiamo fatto nel secolo scorso. Uno degli obiettivi principali della band attuale era andare oltre la semplice nostalgia, cosa piuttosto difficile, e penso che l’abbiamo fatto abbastanza bene.
I Dream Syndicate sono sempre stati una guitar band, aspetto messo un po’ in secondo piano in “The Universe Inside”, dove predominano invece fiati, drum machine e altri strumenti un po’ inconsueti come il sitar. Cosa dobbiamo aspettarci da quell’album in sede live?
Un giorno mi piacerebbe portare quell’album sul palco nella sua interezza, con tutti gli elementi che ascolti nel disco. Ma questo non accadrà nel 2022 perché abbiamo un nuovo album in uscita a giugno ed è anche il 40° anniversario di The Days of Wine and Roses, quindi per ora ci concentreremo su queste due cose.
Ma tutti noi vogliamo davvero portare The Universe Inside on the road un giorno o l’altro.
Sarebbe selvaggio e sicuramente renderebbe un veicolo più affollato lungo la strada.
Facciamo un salto nel passato, negli anni d’oro del Paisley Underground. Che periodo era? Come siete arrivati a coniare quel linguaggio così avveniristico, in un certo senso, seppur legato al passato?
Come molte band, studiavamo le cose che ci piacevano ed eravamo un po’ snob nei confronti di ciò che non amavamo. E noi amavamo il garage rock, il kraut rock, la psichedelia e molta della musica post-punk arrivata solo pochi anni prima. Ma intorno a noi la gente stava impazzendo per i sintetizzatori e per quella che veniva chiamata musica New Romantic. Noi avevamo quell’audacia tipicamente giovanile di dire “QUESTA è la buona musica e tutto il resto è una schifezza”. Lo sentivamo davvero e puoi percepirlo nei nostri primi lavori e nei primi show.
Negli anni ’80, i Dream Syndicate hanno pubblicato diversi album importantissimi, tra cui almeno due pietre miliari molto diverse fra loro, a mio modo di vedere: “The Days Of Wine And Roses” e “Medicine Show”. Cosa è cambiato nel vostro stile tra quei due album? Come mai avete deciso di ricorrere all’innesto di un tastierista (Tom Zvonchek)?
Quei dischi sono molto diversi, ma il passaggio dall’uno all’altro ha più senso se segui i live che abbiamo suonato nel mezzo.
Ho sempre detto che il mio più grande rimpianto per la band è non aver fatto altri dischi, qualcosa a cui stiamo rimediando per ora.
Penso che buona parte del cambiamento sia derivata dall’essere costantemente in tour e vedere così tanto degli Stati Uniti, assimilarne la musica, lo scenario, le storie. Tutte cose che filtravano attraverso la nostra musica. The Days of Wine and Roses è molto interiore e nevrotico, mentre Medicine Show è abbastanza esteso e a grande schermo. Si tratta semplicemente di chi eravamo e come stavamo cambiando. Per quanto riguarda Tommy, il nostro produttore Sandy Pearlman sapeva che volevamo integrare le tastiere nella musica e conosceva Tommy dai precedenti progetti che aveva fatto, alcuni progetti collaterali dei membri dei Blue Öyster Cult.
Siete anche responsabili di uno dei live secondo me più eccitanti della storia del rock, “Live At Raji’s”, e ho sempre trovato quasi paradossale come si sia trattato del canto del cigno della prima fase. Che ricordi hai di quella notte esplosiva?
Ricordo di aver mangiato gli spaghetti che il nostro produttore Elliot Mazer ha preparato a casa sua prima dello spettacolo. Stavamo facendo lo spettacolo al Raji’s perché la fidata Gibson SG di Paul (Cutler, ndr) era stata rubata e in quel posto era facile ottenere dei vantaggi, dal momento che andavamo lì spessissimo e ci sentivamo come a casa.
Elliot ebbe l’idea di registrare lo spettacolo direttamente su DAT, una nuova tecnologia all’epoca. Aveva fatto cose simili negli anni ’60 con i Big Brother And The Holding Company e ci piaceva l’idea che il DAT non solo fosse semplice, ma non permettesse nemmeno la possibilità di remixare.
Una volta terminato lo spettacolo, terminò anche la registrazione. Ma non eravamo preoccupati o altro, perché non pensavamo potesse essere un disco. Ci siamo semplicemente scatenati, e forse la cucina casalinga di Elliot ci ha messo dell’umore giusto. O forse era il vino.
Particolarmente significativa anche la tua carriera dopo lo split della band, sia da solista che con i Miracle 3, in parte immortalata nel box “Decade”, uscito lo scorso anno, senza dimenticare svariati altri progetti come i Gutterball o i Baseball Project. C’è un album della tua vita post Dream Syndicate a cui sei particolarmente legato?
Sono felice di dire che mi piacciono tutti in modi diversi. Probabilmente i miei preferiti sono quelli in cui ho avuto maggiori possibilità, sono andato un po’ nel deserto e ho fatto funzionare tutto in modi che mi hanno mostrato altre cose che avrei potuto fare dopo, dischi come Here Come the Miracles e Crossing Dragon Bridge. Potrebbero essere questi i miei due preferiti. Ma mi piace anche l’approccio semplice e disordinato, senza troppe aspettative, dei dischi dei Gutterball e dei The Baseball Project. Ambizione e spirito di squadra sono due facce della stessa medaglia.
Sei anche uno dei cantautori più interessanti della tua generazione. Un songwriting spesso a tinte fosche, alimentato dai conflitti tutti interiori che animano gli individui e determinano le loro azioni. C’è il cinema, c’è la letteratura hard boiled e diversi punti di contatto con altre forme d’arte. Come si è evoluta la tua scrittura nel tempo?
Si evolve davvero da una canzone all’altra e di giorno in giorno. Preferisco che le canzoni mi scrivano anziché il contrario. Nei giorni migliori, sono solo il loro umile servo.