Il 2019 è stato un anno molto soddisfacente per il metal: numerosissimi volti, nuovi e non, hanno rilasciato nuova musica e oggi sono qui per presentare una mia personale Top 10 degli album pubblicati.
È stata dura inserire un album in una posizione piuttosto che in un’altra, ed è stato altrettanto difficile escluderne alcuni dalla classifica ma, ahimè, le posizioni non sono infinite. Detto ciò, passiamo alla presentazione di quelle che, secondo me, sono state le dieci migliori release metal dell’anno:
10. White Ward – Love Exchange Failure (Debemur Morti Productions)
I White Ward hanno esordito con l’acclamatissimo Futility Report nel 2017, il quale proponeva un’inusuale commistione tra post-black metal e jazz.
Con Love Exchange Failure però il combo ucraino sembra osare qualcosa di più, allungando il minutaggio dei brani, che risultano più complessi, e proponendo un concept album, a partire dalla copertina, sulla morbosa vita di città, caratterizzato al contempo da sfuriate black e da momenti melodici perfettamente amalgamati grazie anche all’incredibile lavoro delle tastiere e del caratteristico sax.
9. Tool – Fear Inoculum (RCA Records)
Un ritorno atteso molto a lungo quello dei Tool, un’attesa di ben tredici anni dallo stupefacente 10.000 Days ci ha portati fino a Fear Inoculum, che riprende lo stile proprio dal suo predecessore, in particolare l’atmosfera tribale creata dalla batteria di Danny Carey.
I Tool ci regalano sette pezzi molto lunghi, ad eccezione della bizzarra strumentale Chocolate Chip Trip; nei cinque brani che la precedono, la musica del gruppo si fa spesso eterea, atmosferica per poi esplodere nella conclusiva 7empest, che chiude nel migliore dei modi un lavoro non all’altezza dei suoi predecessori, ma certamente di pregevole fattura.
8. Insomnium – Heart like a Grave (Century Media Records)
Quando si parla di melodic death metal, è impossibile non pensare agli Insomnium, quintetto finlandese che con Heart like a Grave è giunto all’ottavo album in studio, che risulta essere per l’ennesima volta un prodotto di altissimo livello.
I riff creati dai tre chitarristi si intrecciano con il growl del bassista Niilo Sevänen creando gemme di rara bellezza come i singoli Valediction e, soprattutto, la lunga Pale Morning Star, arricchite occasionalmente dalle clean vocals e da una serie di assoli semplicemente fantastici.
7. Hath – Of Rot and Ruin (Willowtip Records)
Non è un caso se nell’introduzione ho parlato di volti nuovi: sono ben tre le band all’esordio discografico che ho inserito in questa top; i primi che incontriamo sono gli Hath con Of Rot and Ruin. Un album di certo non di facile assimilazione che propone un death metal pesantemente influenzato dal progressive e dal black metal.
Il platter in questione si sviluppa tra riff intricati e un drumming possente; il tutto, unito al cavernoso growl di Frank Albanese, ci trasporta in un mondo oscuro e maledetto, condito dalle rare ma efficaci clean vocals del bassista Greg Nottis.
6. Car Bomb – Mordial (Holy Roar Records)
Un album assolutamente folle. Mordial consiste infatti in 45 minuti di devastante mathcore/djent, dove breakdown pesantissimi si alternano ad assoli disarmonici.
La voce di Michael Dafferner passa da momenti dolci, in cui potrebbe sussurrare la ninna nanna a un bambino, ad altri in cui sembra adatta a narrare l’estinzione postatomica della razza umana. Come se non bastasse, l’ascoltatore viene bombardato da suoni campionati (è forse una mitragliatrice aliena quella che sentiamo in Dissect Yourself?) che non gli fanno trovare pace.
Un album che forse non sarà all’altezza di Meta, ma che risulta essere esattamente come ciò da cui prende spunto il nome della band: esplosivo.
5. Vitriol – To Bathe from the Throat of Cowardice (Century Media Records)
Il classico fulmine a ciel sereno: il debutto dei Vitriol è una vera e propria mazzata per la scena estrema dell’anno appena trascorso. Non c’è un attimo di tranquillità in questi tre quarti d’ora scarsi nei quali ci si chiede se sia realmente possibile che appena tre persone siano in grado di creare questo imponente muro sonoro.
Se ho già parlato molto bene degli assoli degli album nelle posizioni più basse, sappiate che quelli di quest’album sono almeno due spanne sopra gli altri per l’intensità e l’epicità che esprimono. A Gentle Gift, a dispetto del titolo, rappresenta l’apice della brutalità di un album semplicemente eccezionale.
4. Slow – VI -Dantalion (Code 666 Records)
L’eclettico polistrumentista belga Déhà è tornato lo scorso novembre con la sua band funeral doom Slow, ora divenuta un duo con l’ingresso della cantante e bassista Lore, con VI – Dantalion.
Questo è un album che consiglio di ascoltare al buio per potersi immergere al meglio nell’atmosfera decadente creata anche grazie a un superbo uso delle tastiere, come nella mastodontica Lueur, che entra di diritto tra le migliori canzoni mai scritte dal gruppo, mentre i malinconici riff di chitarra ci accompagnano in questa discesa agli inferi.
E, semmai doveste sopravvivere a tale discesa, potrete risalire alla luce con l’acustico della conclusiva e, tanto per cambiare, lunghissima strumentaleElégie.
3. Remete – Into Endless Night (Cold Ways Music)
Molto probabilmente questo nome non vi dirà nulla. Into Endless Night è infatti l’esordio di Remete, uno dei vari side project di D., fondatore di Woods of Desolation, band con cui (purtroppo) non pubblica nulla dal 2014.
Nell’attesa di un nuovo album con WOD, possiamo però gustarci questa perla di atmospheric black metal, composta da quattro brani di media-lunga durata caratterizzati da riff chitarristici glaciali e da un ottimo drumming di supporto, a testimonianza di come, con la presenza di D., può cambiare la forma ma non la sostanza.
2. Allegaeon – Apoptosis (Metal Blade Records)
Giunti al terzo capolavoro di fila, gli Allegaeon si possono ormai considerare una realtà più che concreta in ambito technical death.
Il quintetto statunitense con Apoptosis (termine che indica la morte delle cellule) ci trascina in un universo fantascientifico fatto di blast beat al limite dell’estremo e occasionali stacchi di basso, con le chitarre di Greg Burgess e Michael Stancel assolute protagoniste in un rincorrersi di riff e assoli velocissimi, che non portano tuttavia mai a un vuoto tecnicismo, visto che l’impatto emotivo rimane dall’inizio alla fine dell’album.
1. Fleshgod Apocalypse – Veleno (Nuclear Blast Records)
Ebbene, siamo giunti in prima posizione. L’album che mi ha emozionato di più nel 2019 è stato dunque Veleno, quinta pubblicazione dei nostri compatrioti Fleshgod Apocalypse.
Un album coinvolgente sin dalla pesantissima opener Fury, il cui testo si scaglia contro chi ostacola il progresso, fino alla title-track strumentale che chiude la scaletta.
Veleno è a mio parere il miglior album mai rilasciato dai Fleshgod: le ritmiche tech death si mescolano perfettamente con le orchestrazioni di Francesco Ferrini, mentre Paolo Rossi e Francesco Paoli sono a dir poco perfetti, sia strumentalmente che vocalmente, anche nei momenti più tranquilli, come nella drammatica The Day We’ll Be Gone.
Ma la cosa che mi è piaciuta di più sono state le citazioni letterarie: il Carme 76 di Catullo in Monnalisa, brano dalla potenza emotiva incredibile, e soprattutto La ginestra di Leopardi in Embrace the Oblivion, che rischia di commuovermi a ogni ascolto.
Noi italiani possiamo andare veramente fieri di una realtà come i Fleshgod, e Veleno ne è l’ennesima dimostrazione.