Sono le 22.07 (sono preciso, lo so) quando la chitarra straniante di “Don’t fall” dei Chameleons squarcia l’aria già satura di attesa.
Napoli abbraccia Mark Burgess ed i suoi The Chameleons sciogliendosi e cantando tutti i brani, finanche pogando, quasi a sottolineare la voglia di una parte della città di godere di simili eventi troppo poco presenti nel capoluogo.
I Chameleons sono stati una band all’epoca fin troppo sottovalutata ed ora, giustamente, stanno raccogliendo i frutti di un talento passato sotto traccia.
Padrini di un sound romantico, pregno di chitarre sature di delay e precursori dello shoegaze e dream pop, autori di melodie, forse meno pop di band “rivali” all’epoca come U2 e Smiths, oggi sono stati riscoperti ed è stato riscoperto un puro gioello come Script of the Bridge, interamente riproposto live.
Mark Burgess tiene il palco come un ventenne e si vede che ha piacere a suonare, canta senza una sbavatura e gode per ogni singola nota stupendosi dall’affetto della gente. Ascoltare live “Second Skin”, “Monkeyland” o “Up the Down Escalator” significa fare un viaggio nel tempo, significa chiudere gli occhi e tornare agli anni 80.
Peccato per l’acustica, invero avventurosa, se devo usare un aggettivo.
La band ce la mette tutta, ma la resa sonora non è mai omogenea e varia seconda della posizione che si occupa. Poco male, I Chameleons suonano da dio e davanti al pubblico adorante concedono ben due bis (con una “Swamp Thing” incorporata). E’ quasi mezzanotte quando tutto finisce come in un sogno dal quale ci si sveglia bruscamente.
I bis li ho ascoltati allontanandomi dal palco perchè mi sono goduto la sala piena e l’effetto che faceva e nel mentre ho riflettuto.
Ho riflettuto e ho capito che non è finita. Non è finita perché se i Chameleons fanno di lunedì 250 e passa persone allora c’è una qualche speranza, c’è la possibilità di avere bands simili perché esiste un pubblico e di questo dovrebbero prenderne atto i promoter autoctoni; spesso troppo impegnati a salvaguardare le masse a scapito della qualità artistica giacché le strutture cittadine ci sono e c’è anche una audience adatta. Per ora, intanto, un plauso a Subculture che ha portato a Napoli un pezzo di storia della new wave.
Dario Torre