Allora, facciamo un passo indietro prima di Spotify. Anzi due.
Punto -2: Sono un fermo sostenitore di una certa idea di unitarietà degli ascolti, passo giorni, settimane o mesi dedito all’ascolto ripetuto di determinati “blocchi” musicali, confinando pure il tedio quando mi prende, fin quando non riesco a dire una parola, a dare un giudizio su ciò che sto ascoltando, a rintracciare l’orlo palpabile dell’orma che quell’ascolto abbia stampato in me.
Dunque sono convinto che tali blocchi abbiano questo fine, di essere dei conglomerati di elementi che debbano in ultima analisi comporsi in un disegno unitario dai margini definiti, e per questo propugno fortemente le idee di album, ep, pubblicazioni con una data e un nome ed evito la gran parte dei greatest hits e the best of, tranne nei casi in cui essi abbiano un preciso significato artistico.
So bene i rischi (maggior difficoltà a rintracciare caratteri generali di un determinato artista, possibile ignoranza dei brani più noti, delle hits, appunto) e le difficoltà (partire dal tale album della tale discografia del tale artista può risultare incespicante) che questa preferenza comporta, ma sono certo che a paragone le due cose siano come conoscere una città dall’alto, col dubbio di non saper bene quali siano i quartieri più popolosi, quali le porte oltrepassate da chi arriva e da chi va, ed esplorarla calpestandone l’asfalto e visitandone i quartieri, seppur col timore di perdersi.
Punto -1: Sono stato a lungo affascinato dalle possibilità che sistemi di streaming musicali offrono all’ascoltatore qualsiasi, ma ho sempre fatto un passo indietro nel momento in cui ero per diventarne un utilizzatore abituale: questioni sulla svalutazione dell’opera degli artisti, timori sulla massiva accelerazione del percorso di conoscenza musicale ed altre minchiate mi fermavano.
Mi dicevo: meglio il mio angolino protetto, mi compro e scarico con calma quel che mi interessa, youtube di tanto in tanto, e mi faccio la mia libreria di artisti e modelli, libreria – sia ben chiaro – già per più della metà virtuale. Poi ho valutato i limiti, mi sono reso conto delle tante zone d’ombra a cui il suddetto angolino mi costringeva, ho guardato ai parecchi scaffali ingiustificatamente vuoti che la mia libreria continuava a mantenere (non tutto era reperibile utilizzando quella modalità di ricerca) ed ho pensato ad un abbonamento.
Mi serve poi musica da poter ascoltare ovunque, per strada, quasi come se la città di cui voglio conoscere le vie, la città della musica, si attraversasse a piede più fermo con il corpo in moto per una destinazione fisica, da raggiungere in una data ora della giornata. La musica si fa materiale, la tocco quasi sotto il metatarso mentre cammino e ascolto.
E poi è pure vero che il tempo è quello che è, dunque investire sui percorsi a piedi mi pare una buona idea dalla prima adolescenza. Il mio orecchio si è fatto le ossa su questo metodo, che ora trova appieno corrispondente al fine.
Punto 0 (e finalmente ci siamo): tra i vari servizi opto per Spotify, perché è il più utilizzato, sembra essere il più ricco di contenuti e il più conveniente; approfitto di un’offerta e concludo la mia sottoscrizione: ho Spotify.
E’ tardi ma ho voglia di sperimentare il nuovo mezzo e cerco il primo album che mi balza in testa tra le nuove uscite di Spotify. Ne ascolto alcuni brani, il primo, il terzo, quello il cui titolo mi suona familiare, mi pare di ricordarlo. Poi parte un altro, che dopo poco più di un minuto mi accorgo di aver già sentito, controllo lo schermo dello smartphone e riconosco la copertina, sì, si tratta di un album degli anni 90 dello stesso gruppo. Lo finisco di ascoltare e passo automaticamente ai successivi.
Intanto sto facendo altro, per cui all’ultimo brano non sono stato proprio attento, me ne rendo conto ma non me ne curo, riconosco solo che questo altro inizia a farsi molto presente. Infatti incomincio ad ascoltare un pezzo di un artista diverso (non ricordo chi sia) ma dopo i primi secondi o sono preso dall’altro di cui prima o ho bisogno di scorrere le tracce dell’album di cui fa parte quella che è in riproduzione, poi di conoscere i nomi degli altri album del medesimo artista, poi di vedere quali sono le tracce principe, le più ascoltate dagli utenti, che Spotify mette in cima.
Forse interrompo la traccia che sto ascoltando per sentire una di queste e ciò avviene solo se non sono impegnato nel fare altro, cioè nel fare mentre ascolto.
Faccio una riflessione: anche l’ascoltare è un fare, è un’azione, ma tale da consentirmi nel frattempo di impiegarmi in quell’altro, cioè in un’altra azione piuttosto meccanica o che non richieda particolare attenzione. Dunque lascio scorrere anche questo brano most listened e poi altri ed intanto sono ancora più impegnato nell’altro. La mia riflessione, tuttavia, è corretta: mi è impossibile fare nel frattempo che uso Spotify qualcosa che mi voglia veramente preso, infatti sto controllando i messaggi, scorrendo la bacheca di Facebook etc.: il mio altro è un guscio vuoto e questa è tutta roba che annoia, che alla fine ti sfianca, e per fortuna ci sono i picchi, i picchi che l’ascolto contemporaneo mi destina. Ossia i momenti in cui l’altro è così desertico che il potenziale, reale o apparente, della musica che sento, seppure nella congerie semicasuale dei brani, irrompe nel campo della mia attenzione senza pari ed io posso interrompere il mio cazzeggio e capire cosa sto ascoltando.
Sono contento di leggere il nome del brano, di farmi un’idea dell’album, del periodo in cui è stato pubblicato ma rimango con una specie di languore, come dal fondo dello stomaco, languore che prima si intensifica quando il pezzo suona più piano, poi si dissolve quando l’ascolto passa all successivo.
La situazione si ripete: sulle prime picco dell’attenzione – mi sembra un pezzo stratosferico, porca miseria! – poi l’atmosfera si fa più tenue ed io rimango a bocca asciutta, cerco qualcosa di diverso ma non trovo che la stessa cosa, se non addirittura brani ancora più sommessi, che non mi prendono affatto. Quando è così sono lì lì per ritornare al vuoto altro. Questo meccanismo non mi piace, c’è qualcosa che non funziona. Ma cosa?
Chissenefrega, io domani ho da fare, da studiare ed ora devo andare a letto, prima però voglio stonarmi con qualcos’altro di forte – abbasso i piani. E dunque cerco tutt’altra roba, roba di cui in alcuni momenti mi potrei pure vergognare, ma è roba forte, anzi, non proprio forte, è roba che mi prende, che mi porta a fare un giro anche se la mia testa è sul cuscino e mi fa vedere i colori del tramonto del mio stato di veglia. Addormentarsi così è più bello.
L’indomani sono per strada e sto raggiungendo il posto dove mi è congeniale studiare e il tragitto a piedi è fatto per ascoltare la musica, per conoscere questa misteriosa città.
Dunque pesco in Spotify un album tra le mie preferenze e lo metto in riproduzione, dalla prima traccia. La prima traccia è buona e l’ascolto fino alla fine, come faccio per la seconda, che è pure niente male; ma sulla terza mi fermo, perché mi sembra piatta, dunque mi dico che potrei avere una panoramica sull’artista ascoltando qualcosa top, e lo faccio, ma pure questo alla fine mi annoia.
Ecco nuovamente l’impasse. Ci risiamo.
Mi arresto e decido cosa fare: o brano top o album top, che è un altro discorso ed è probabilmente meno adrenalinico, perché non è detto che mi ritrovi di fronte i 40 minuti secchi di Beggars Banquet e non è detto che, seppure sia così, io sia capace di accettarli e comprenderli sin dal primo ascolto. Ecco, riscopro questo: per ascoltare davvero ci vuole pazienza, come per arrivare al fondo di tutte le cose veramente serie della vita. La musica, almeno oltre certi gradi pressori, inabissatisi verso un fondale imperscrutabile, avvolto da sottili riflessi di luce provenienti da chissà dove e boati compressi, è un affare molto serio. Ed io, lì, a quell’angolo della strada, ho la sensazione di aver perso la gravità e le forze muscolari che mi avrebbero permesso di provare questa discesa.
Non so cosa fare, non so in che modo iniziare a usare i miei timpani e il delicato complesso neuronal-umano che essi nascondono, non so quale pista seguire. La musica è ora una città notturna tutta punteggiata di luci, sfumature differenti di colore e dimensione, che permettono di vedere rischiarati alcuni edifici, o di intravederne la sagoma.
Ecco la cattedrale, ecco il suo rosone intagliato, ecco quasi la sua pietra bianca, ma non riesco a scorgere altro, anzi, sono attratto da luci diverse che come offuscano la prima. Cerco di capire perché e mi rendo conto che queste ultime sono più vicine, perciò appaiono più grandi, ma nel contempo illuminano poco, magari quella via che già conosco bene, pochi vicoli abusati dalle suole. Ed ecco pure il municipio, il parco comunale, ma non posso andar oltre, questi lampioni distribuiscono i loro strali sin dove sono capaci.
Più facile seguire l’immediato, l’istintivo, Spotify è diventato un luna park per il mio ascoltare, una sorta di circuito di autoalimentazione della mia libidine musicale. Libidine che rischia di diventare un cerchio chiuso, che ritorna alle poche cose note e fa fatica a espandere il suo raggio verso le ignote, soprattutto se esse richiedono attenzione e la pazienza dell’ascoltare, non capire e poi ricominciare. Dopo quante riproduzioni ci si innamora di un album? Si è più legati a una cosa quando si sa riconoscerne la sagoma all’istante o quando si hanno le mani e i piedi ben piantati in essa, come radici?
Probabilmente nutro un desiderio antiquato, come è antiquato l’approccio alla musica che sostengo e ricerco, come antiquate sono queste considerazioni, sicuramente indietro coi tempi e la velocità di diffusione degli streaming musicali. Ma è difficile schiodarsi dalla testa certe cose. Anzi, la mia volontà si arma per raggiungere gli obiettivi verso cui è protesa e certamente Spotify non impedisce l’ascolto immersivo che a me interessa, sembra solo confonderlo, distrarlo. E allora?
Allora scopro questo: se desidero davvero qualcosa devo superare l’ostacolo della distrazione e gli artisti, gli album, i brani che voglio veramente conoscere sono quelli per cui sono disposto a fare questo sforzo, a far piazza pulita di hits e facili picchi dell’attenzione pur di inabissarmi nella loro complessità, anche a costo di annoiarmi o di perdermi. Fare questa differenza costituirà la mia ancora.