Allora, ci stiamo incamminando verso l’autunno che a me piace assai, ma davvero tanto e per fortuna di roba da ascoltare ce n’è sempre un bel po’.
Le cose questo mese si fanno complicate, perché abbiamo progetti eterogenei, ma comunque con un denominatore comune: è musica che colpisce sempre allo stomaco.
Il primo album che consiglio è l’ultimo, forse in tutti i sensi, lavoro dei Blessed Child Opera di Paolo Messere.
Paolo, produttore, deus ex machina della label indipendente Seahorse Recordings, nonché uomo solo dietro il progetto Blessed Child Opera ci regala, per ora solo in formato digitale, l’ultima sua fatica dopo il doppio e mastodontico Love Songs/Complications.
Liars vive dei temi cari a questo ventennale progetto, ma stavolta, per quanto possibile, spinti allo stremo.
Ogni brano, ogni nota trasuda qualcosa di definitivo, scurissima fine, tensione ai massimi.
It was never too late inizia abbassando le luci con una chitarra ostinata e liquida, mentre la voce recita sussurrando. I toni scuri ai quali i Blessed Child Opera ci hanno abituato ci sono tutti.
Fantasmi di Death in June, Black Heart Procession e new wave aleggiano avvolgendo le nostre orecchie e il nostro cuore. Liars striscia inesorabile riprendendo il mood del primo brano con sapori molto english, muovendosi tra acque oceaniche profonde e inaccessibili.
What will be of us cede a un synth amabile e romantico, come tutto il pezzo. Sono gli ultimi fuochi, perché con Please don’t let me know ci troviamo davanti ad una ballata marziale e greve che si apre squarciandoci in due.
Questo potrebbe essere, come ho già detto prima e come Paolo Messere ha scritto in un breve post, l’ultimo album dei Blessed, che stima e consensi hanno raccolto all’estero e anche in molti appassionati in un paese sordido e indifferente come il nostro.
Se così fosse, se davvero Liars fosse l’epitaffio dei Blessed Child Opera, allora Can’t you forget me now è la giusta, degna e d emozionante conclusione. Qualcosa di leggermente solare, ma giusto un po’, a dispetto di una serie di album che hanno illuminato il cuore nero di ognuno di noi. Recuperateli.
Cambiamo proprio registro tornando allo shoegaze-dream pop che più ci piace.
Quante volte ho parlato dello shoegaze made in Japan? Parecchie volte, sì.
Ho citato Luby Sparks, Cattle, Collapse, 17 Years old and Berlin Wall per dirne tra i più giovani. E ora ne abbiamo un’altra.
Sono quattro ragazze, si chiamano Spool ed è da poco uscito il loro primo singolo: Ghost.
Atmosfere dilatate, bluastre, liquide e cariche di colori pastello. Le voci si incrociano, si inerpicano in trame gentili e infantili. Ricordano i compaesani Pastel Blue anche se meno onirici. Le ragazze ci sanno fare, ho fiducia.