Milano, marzo e la pioggia. Torrenziale. E tutti in giro già con ridicoli vestiti estivi, con le giacche di jeans e quell’acqua che s’infiltra ovunque. É una di quelle serate in cui il caldo dell’Ohibò di Milano (talvolta asfissiante, come ben ricorderanno quelli che lì c’hanno visto Frah Quintale) diviene invitante e bellissimo, con quell’aria casalinga e buia. Bar e tavolo da biliardo. E poi i suoi divani, vuoti com’è tipiche di questi venerdì sera un po’ solitari. Al bar ancora nessuno e meno di una manciata di persone, ben distanti e vaghe, quando attaccano i Lekka sul palco.
Il batterista arrivato appena dieci minuti prima al locale, da chissà dove. Loro, tre ragazzi con le magliette bianche che un, due, tre, attaccano a suonare e offrono un live serratissimo, di quelli belli e rari, come solo chi riconosce il valore della musica elettronica suonata (e per suonata intendo suonata davvero) dal vivo, può apprezzare. Ricordano i Soulwax (ma anche in qualche modo i Public Service Broadcasting), con quel loro modo di spaccare tutto, ma sono più divertenti, ironici, irriverenti. E sono loro i veri protagonisti della serata.
Segue infatti il live delle Sequoyah Tiger: piatto, ingenuo e falso (con il tipico effetto karaoke di chi usa le basi per riempire il sound di un disco tutto sommato più che apprezzabile, e altrimenti irreplicabile). Forse è vero, non è da considerarsi un concerto quanto più una performance, teatro-clubbing, ginnastica artistica elettronica… Bello, ma dimenticabile. Estetico, quanto insensibile.
Il pubblico sembra reagire tutto sommato bene, nelle sue movenze di chi ondeggia al ritmo più del terzo cocktail che delle Sequoyah Tiger. Passabili, ma forse godibili in tutt’altro contesto.
Il vento soffia sulle ultime sigarette, tra chi trema perché ha lasciato la sua giacca chissà dove, e per chi, stoico, pensa di tornar dentro a ballare per concludere al meglio un venerdì sera le cui premesse erano migliori. Insomma, su Spotify rendiamo tutti meglio che dal vivo, no?
Morgana Grancia