Oggi vi parlo di questa band inglese ormai al suo decimo lavoro in studio. Ops, forse ho sbagliato press kit. Eppure ascoltando il disco…
Quando ho sentito per la prima volta “Penelope, Sebastian” – disco dei Winter Dies In June autoprodotto e uscito ad aprile 2018 – questa è stata l’impressione iniziale.
Di solito prima di recensire un disco non leggo nulla dell’artista e dello stile musicale: scarico l’MP3, lo metto in cuffia e provo ad immaginare le persone dietro quei suoni, mi faccio un paio di film nella testa e solo alla fine apro il press kit o approfondisco. Immaginate lo stupore quando ho scoperto che questo disco decisamente maturo – dalle sonorità post rock e shoegaze con sfumature brit pop nei testi e nella voce – è in realtà un’opera seconda di un giovane gruppo di Parma che nel 2014 era uscito con The Soft Century, un disco già di un certo spessore. Certo, quattro anni fa le chitarre erano più taglienti e gli arrangiamenti orchestrali hanno lasciato ora spazio a synth analogici. Ma i Winter Dies in June, convincenti fin dal nome, mi hanno stupito e hanno trovato uno spazio di tutto rispetto nella mia libreria musicale.
Testi in inglese – cantati con una voce che ha poco da invidiare ad Isaac Slade (The Fray) o Richard Ashcroft – raccontano la storia di due personaggi: Penelope e Sebastian.
Il racconto parte dal momento dell’abbandono e va a ritroso fino all’istante del loro primo incontro. Penelope e Sebastian interagiscono tra loro e con quello che li circonda dando così un tempo cronologico al ricordo, un tempo che per chi ascolta scorre al contrario. Il racconto ha la voce di Penelope che ricostruisce e cuce gli episodi tra loro e li plasma conferendo loro una prospettiva.
Otto tracce disposte nel disco al contrario rispetto all’esecuzione logica della storia. Si parte da Aeroplanes scelta come singolo probabilmente per la sua completezza ed esaustività. Si passa poi a Sands: “forse il pezzo più british di tutto il disco, con una divisione sonora netta tra strofa e ritornello: il primo caratterizzato quasi unicamente dalla ritmica, dall’utilizzo di sinth Juno e rhodes, mentre il ritornello squaderna tutto il rumore che è chitarristicamente percepibile dall’orecchio umano e la voce si aggrappa all’ultima coda di armonia per restare a galla e guidare chi ascolta attraverso il racconto del legame di due persone con una canzone (So long Marianne).” Si arriva quindi a Sebastian che, come ammettono gli stessi Winter, è di certo la ballad ufficiale del disco. Si tratta di una canzone del ricordo nel ricordo, particolarmente evocativa poiché l’azione rimbalza continuamente tra il tempo passato e quello presente.
Boy è invece il brano del ritorno a casa e quello della ricerca del perdono. E’ l’unico pezzo nel quale si sente la voce di Sebastian che se la racconta e si dice “I’ll manage somehow”. E qui il disco cambia ritmo e sonorità. Forse proprio su questo pezzo devo aver pensato che stessi ascoltando qualcosa di passato nelle radio tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta.
Nowhere è un fondersi di eco e riverberi e tastiere in un crescendo semplice. Passa quasi inosservata. Sembra quasi una intro a Space, brano seguente, un pezzo rock alternativo con un basso dritto e potente, una batteria energica e una chitarra distorta all’inverosimile durante il ritornello con un finale che spiazza e stravolge tutto il sound costruito fino al terzo minuto (ho dovuto ricontrollare più volte se fosse saltato in shuffle ad un’altra traccia del disco).
Penelope è il pezzo più “pieno” e variegato del disco. Apre diversi momenti ritmici e sonori. Una scala discendente classica per strofa e una melodia che si arrotola in maniera differente sulla stessa armonia. Chiude il disco la canzone che in realtà fa cominciare la storia: Different, il pezzo del primo incontro, due sconosciuti al concerto degli Strokes. Le chitarre acustiche si intrecciano, due voci si susseguono (la principale ed un coro in leggero fuori sincro che arriva da lontano, forse dal futuro). Qui la malinconia è ancora dolce, il legame si crea in mezzo alla folla ed è pronto a raccontarsi.
Per concludere: i Winter Dies In June (Alain Marenghi, Andrea Ferrari, Filippo Bergonzi, Luca Ori, Nicola Rossi) hanno impacchettato un disco serio e maturo. Poco importa se a volte le sonorità sono un po’ cupe e i testi ti rapiscono in una malinconia quasi senza speranza. In giugno muore l’inverno, ma a fine settembre ci prepariamo per atmosfere più dense ed emotive… l’estate può aspettare senza troppi rimpianti.