“Through the sorrow all through our splendor
Don’t take offence at my innuendo”
Per l’aneddotica, gli anni ‘80 rappresentano l’Eldorado di divertenti avvenimenti da narrare. Dal punto di vista musicale però Innuendo è la chiusura del cerchio cominciato a tracciare agli esordi.
L’oscurità presente in Queen II ora diventa concreta e non più un vezzo, si percepisce in ogni afflato di Freddie Mercury una rassegnazione che eleva il valore esecutivo di ogni traccia.
Si tornano a toccare picchi qualitativamente molto elevati, dopo un The Miracle che ha mostrato segni di ripresa, Innuendo è la degna chiusura ispirata – di una carriera artistica estremamente eclettica – capace di mascherare alcuni passaggi a vuoto del periodo “stadi”, caratterizzato da una apparente svogliatezza creativa.
In primis, questo impulso creativo traspare dalla copertina del disco e dalle artworks che seguiranno a cascata i vari singoli provenienti da Innuendo.
Lavori ispirati a Grandville, che contribuiscono alla creazione di un’aura mistica e fuori dal tempo attorno all’ultima opera queeniana.
“Credo sia arrivato il momento di rompere la routine disco-tour-disco-tour”.
Con questa dichiarazione rilasciata alla BBC dopo l’uscita di The Miracle – un disco molto potente e che ben si sarebbe prestato ad un tour – Freddie spiazza gli altri membri della band.
La diagnosi della malattia induce Mercury a comunicare agli altri Queen lo stato delle cose nel 1989, giustificando di fatto la sua esternazione alla BBC, ed il suo approccio in studio di registrazione è di quelli da pelle d’oca: “Fatemi cantare qualsiasi cosa, datemi più materiale possibile”.
Photo Credits: John Rodgers/Redferns/Getty
Con questa modalità, canzoni come I Can’t Live With You e Headlong (originariamente previste per il disco solista di May) prendono vita e vengono inglobate nel nuovo disco.
Dopo il rilascio di The Miracle, stranamente, Freddie torna in studio per registrare alcune demo – tra le quali compare anche Delilah (la canzone dedicata al proprio gatto preferito, tra gli 11 che accudiva nell’abitazione di Kensington Road) – dimostrando una voglia di lasciare inciso più materiale possibile a disposizione dei restanti Queen.
La musica rappresenta una distrazione dalla malattia, ma anche il motivo principale dell’esistenza di Mercury: vivere in funzione dell’arte – come è stato in parte per Blackstar di Bowie -.
Il disco assume così un valore unico, un’uscita di scena che rende la vita una performance totale.
Innuendo è un requiem.
Sebbene ormai i credits siano suddivisi parimenti tra i quattro Queen, resta semplice scoprire a chi appartenga l’idea principale alle spalle di ogni brano.
La cifra stilistica è chiara e il messaggio che si cela in ogni canzone porta il pensiero al momento che la band sta affrontando.
Ed è proprio la title-track ad aprire il disco, con un ritmo mutuato dal Bolero di Ravel che si erge a diventare la Bohemian Rhapsody degli anni ‘90.
Un climax ascendente – interpretato dalla chitarra flamenca di Steve Howe degli Yes –, che si inerpica nella struttura, varia ed estremamente angosciante, supportata da uno dei videoclip più memorabili della carriera queeniana.
Il video è girato mediante una elaborata combinazione di animazione e stop motion.
Viene mostrato un cinema pieno di spettatori in plastilina che assiste, come nella rappresentazione filmografica di 1984, alla visione di vari filmati.
Il raduno di Norimberga, il funerale di Umm Kulthum (uno degli idoli di gioventù di Freddie), la marcia Russa, battaglie dalla seconda Guerra Mondiale…
Ad essi si intrecciano varie performance dei Queen, con immagini tratte dal Live At Wembley e dalla proficua videografia proveniente dall’album The Miracle (The Miracle, Invisible Man, Scandal, Breakthru, I Want It All).
La rappresentazione di ogni membro dei Queen è differente:
- Deacon è illustrato nello stile picassiano;
- May seguendo il tratto degli incisori vittoriani;
- Mercury come una figura di Da Vinci;
- Taylor in una esplosione di colori tipica di Pollock.
Non è un caso che i periodi artistici siano differenti, si è voluta calcare la mano sul concetto di identità ben distinte che confluiscono però – in egual modo – nell’accezione di arte in senso lato.
Una valorizzazione esplicita che pone democraticamente Mercury, May, Deacon e Taylor sullo stesso piano, quasi a voler esprimere il seguente concetto:
indiscriminatamente dai gusti, possiamo piacervi o meno, ma non potete contestare il contributo che singolarmente abbiamo apportato nella nostra carriera e nel panorama musicale.
Innuendo è un disco genuino, perché ogni parola assume un peso specifico tale da renderla un macigno.
Anche un brano all’apparenza leggero come I’m Going Slightly Mad – che sforna una serie di metafore assimilabili al non-sense di Lear – pone davanti a delle considerazioni sul vero senso che si cela dietro.
È il tempo contato che rende pazzi, o il brano rappresenta un modo per dissimulare l’ineluttabilità del destino?
Jim Hutton ricorda che, Mercury, durante la stesura del testo avvenuta con il suo amico Peter Straker, non la smetteva di ridere mano a mano che le frasi venivano fuori, in particolar modo “I’m knitting with only one needle“, “I’m driving on only three wheels these days” e “I think I’m a banana tree“.
Mostrando di fatto quanto la musica sia stata un ancora di salvataggio per Mercury negli ultimi mesi della propria esistenza, trasmettendo questa leggerezza – vero leit-motiv della carriera di Freddie – anche nel videoclip.
May ad impersonare un pinguino, Deacon nei panni del giullare, Taylor con una teiera in testa in sella ad un triciclo e Mercury con un casco di banane in testa.
Mi sto dilungando eccessivamente, ma sarebbe un peccato castrare questo articolo non citando Bijou (una delizia sapientemente assemblata a quattro mani da Mercury e May senza alcun intervento da parte di Taylor e Deacon) o These Are The Days of Our Lives.
Quest’ultimo è un brano che Taylor ha scritto sui i propri figli, in particolare su come la genitorialità lo abbia spinto a ripensare alla propria vita. Uno guardo malinconico, che nella voce di Mercury assume un significato differente, una finestra su ciò che sono stati i Queen (questa canzone dimostra come Taylor sia il nostalgico di turno ed il più avvezzo a guardarsi indietro dopo Was It All Worth It presente in The Miracle).
In These Are The Days of Our Lives, Mercury, allo stadio terminale della malattia, affronta le riprese sforzandosi visibilmente, pur di poter salutare il proprio pubblico per un’ultima volta con quelle quattro parole che sono entrate nell’immaginario collettivo del pubblico queeniano.
A dispetto di quanto credano i più, come These Are The Days of Our Lives, anche The Show Must Go On non è un brano nato da Freddie, bensì è tutto frutto di un ispirato Brian che ha inizialmente tessuto la base musicale assieme all’aiuto di Roger e John, per poi decidere in seguito con Freddie la tematica ed alcuneparti del testo.
Successivamente, ha aggiunto altre melodie e le restanti parole, cesellando un ponte ispirato al canone di Pachelbel.
C’è una storia curiosa dietro il completamento di questa canzone, che rende oltremodo leggendario il brano.
Brian presenta a Freddie un demo in falsetto, in quanto alcuni punti raggiungono delle vocalità estremamente alte.
Brian è incapace di nascondere le proprie perplessità ad un Freddie – fortemente debilitato – riguardo la possibilità che riesca ad eseguire quel range vocale.
In tutta risposta Mercury si schianta un bicchiere di vodka secco e lo tranquillizza “cazzo se ce la faccio tesoro!”, andando spedito a registrare la sua parte.
“È una lunga storia questa canzone, ma ho sempre creduto che sarebbe diventata importante, perché avevamo a che fare con situazioni di cui era difficile parlare all’epoca, anche se la musica ti offre la possibilità di farlo” ricorda May.
Non vi nego che un velo di tristezza è sceso su di me durante la redazione di questo articolo sui Queen, sono stato felice di aver ripreso in mano la loro storia e di averla ripercorsa passo passo. Ho avuto modo di elaborare ulteriormente la loro produzione, rivalutando nel bene e nel male alcuni lavori.
Spero di non aver deluso le aspettative in merito e di aver onorato la memoria di una band così iconica. Le informazioni su di loro sono una montagna, filtrarle tutte quante è stato un lavoro intenso e mi auguro che la storia raccontata sia stata all’altezza.