I volumi sono al limite per evitare che il Larsen tagli i timpani come il filo di una lattina di birra divelta, ma sembra che ai Leda non freghi per niente, anzi.
Sono saliti sul palco dello sPAZIO211 di Torino, carichi e concentrati come una scatoletta di Campbell Tomato Soup. Agguerriti come le origini da cui proviene il loro nome, Leda era infatti, per la mitologia greca, figlia di Testi e di Euritemi e moglie di Tindaro, Re di Sparta.
Per intenderci, era quella che si scopava Zeus trasformato in cigno.
La giovane band torinese è fresca del titolo di vincitrice di Pagella Non Solo Rock, il concorso musicale della città Savoia per l’anno 2018, che questa sera vogliono spaccare gli si legge in faccia.
Le tre ragazze sono schierate sul fronte d’avanguardia, mentre la quota azzurra è nelle retrovie, che impugna le bacchette da combattimento.
Sono cresciuti a pane e anni ’90, Hard e Classic Rock, si sente e si vede.
Esibiscono un look che attinge ai più vari universi (in tutti i sensi): la bassista si ispira a una Avril Lavigne dark di Innocence, con i capelli scuri piastrati; la chitarrista ha uno stile che tende al classic rock, camicia di seta a righe larghe, capello alla Jim Morrison e nel suonare ha un che di Page, tanto che ahimè, l’ho confusa per uno sbarbatello.
Quando li ho incontrati a fine concerto, nell’area fumatori, le ho dato del lui e riferendomi alla felpa degli Zen Circus che indossava, facendo la figura del fesso.
La Frontgirl è una vera dura, voce roca e sguardo incattivito dal sopracciglio tagliato a ¾ e la rasatura dal lato sinistro della testa, porta dei pantaloni con bretelle calate e risvoltini, una T-shirt nera della Nike, che ho collegato subito ad Atena, rimanendo nell’immaginario mitologico.
Il batterista ha una maglietta col faccione del Che, che è stata lanciata per terra verso metà esibizione. Che malinconia ho pensato, guardandoli suonare.
Atena Nike fa avvicinare al palco il pubblico in pieno Teen-Drama, mi accorgo solo ora dell’età, guardandoli avanzare. Ballano acerbi, accennano un headbanging che non vedevo dal ’99, anno in cui probabilmente sono nati.
Le ragazze, fresche e prosperose, esibiscono fiere i loro free nipples, anche se volessero non potrebbero lanciare i reggiseni sul palco, quella ormai è una moda passata.
Otto brani carichi d’adrenalina e spirito punk/emo-core, mescolati ad assoli provenienti da epoche lontane, un po’ sghembi nell’esecuzione, migliorabile con un po’ di sala prove, ma con una solida struttura.
Tra le parole incomprensibili a causa del livello del gain, riesco a distinguere solo la frase: “Resta, finché c’è ancora speranza”.
Voglio ricordarmeli così, qualunque cosa intendessero dire, per me in quel momento parlavano di musica.
Il tempo di una sigaretta che Maurizione, il fonico delle Capre, aveva già riassestato l’acustica a volumi più accessibili, ma sempre notevoli.
L’armamentario sul palco è infinito, si possono vedere due chitarre acustiche, due elettriche, due bassi e un ukulele.
Tastiere, pedaliere infinite e pad elettronici per le campionature al fianco della batteria acustica.
Quando Le Capre a Sonagli calcano il palco iniziano subito a scalciare. Sembra che abbiano leccato del sale.
“Gli erbivori sopratutto l’appetiscono ardentemente; le capre e i buoi ricercano con avidità le sorgenti salate e si vedono bene spesso leccare i muri carichi di principii salini”.
N. Pellati, Sale Pastorizio, 1868.
Matteo Lodetti è un fauno impazzito, magnetico, al primo pezzo salta giù dal palco brandendo il microfono, si dimena come fosse tarantolato tra la folla, sbraita versi da far invidia ai video delle capre che urlano su YouTube.
Poi a fine brano si ricompone, saluta il pubblico che nel frattempo ha guadagnato una decade d’età media, e imbraccia il basso, il suo strumento.
Parte un ritmo che ricorda i Blur di Coffee & TV, con suoni molto più distorti e riverberati.
Stefano Gipponi prende il controllo dello strumento voce, suona una Cort acustica sporca e dissonante, uno di quei timbri che seduce.
Giuseppe Falco, alla chitarra e tastiere, armeggia con la leva del ponte per produrre più noise possibile.
Saltella a piedi uniti con i suoi pantaloni larghi a cavallo bassissimo, di cotone indiano, i capelli lunghi gli frustano il viso.
I musicisti sono baldanzosi e grevi nello stesso tempo, il giro di basso ti prende e ti fa saltellare, sembra proprio scritto da Alex James.
Anche i giovini sono entusiasti, i Leda sono venuti a far parte del pubblico e sono ancora più caldi di prima, non stanno fermi un attimo.
Alternano un pezzo nuovo, tratto dal nuovo album Garagara Yagi dai suoni elettronici sperimentali, edito per la Woodworm, e un pezzo vecchio, tratto dai precedenti tre album.
Alle Capre le parole non interessano, sarà una caratteristica dei gruppi bergamaschi (vedi Verdena), quello che riesco a distinguere dai testi sono nomi di alcolici.
Scotch, Whisky, once di Rum, Tequila, Grappa e Pastis, pronunciati con la voce nasale del demonio, il timbro inconfondibile di Stefano, caldo delle fiamme degli inferi, ironico come un satanasso dalle zampe e la barbetta caprina.
Servono un pasto musicale ricco e vario, dal blues sporco di Becchino suonato con barattoli, catene d’acciaio e armonica, dai pezzi di stampo BritPop accompagnati dalle tastiere rigorosamente distorte, ai richiami folk eseguiti con flauto dolce, fino ai momenti psichedelici accompagnati da un ukulele lisergico.
Ho letto che le capre sono attratte dai licheni e dai funghi psicoattivi, li cercano per ore nei boschi di conifere per leccarli e sballarsi, ricordo di averlo letto durante un viaggio in solitaria a Londra, da un libricino chiamato Animali che si Drogano, di Giorgio Samorini, un noto ricercatore e drogologo bolognese.
Due ore sudanti e trasudate, di corpi che si dimenano nel buio, tra salti e urla e poi, l’orgasmo finale, chiamato a gran voce dal pubblico con un doppio bis.
Le capre a sonagli sono un gruppo genuino, rurale, potrebbero essere gli amici di provincia che non vedi da tempo, con cui ti prendi una sbronza esoterica e dionisiaca.
Una di quelle sbronze dove si comincia a parlare lingue sconosciute, una di quelle nella quale esci dalla taverna bergamasca per rubare un estintore per svuotarlo a bordo di un carrello che sfreccia per il parcheggio del McDonald’s, per poi finire con l’autoscontro e magari finire a ridere in un fosso al bordo dei campi appena fuori la città lombarda.
di Mattia Muscatello foto Federica Da Lio