A distanza di due anni da Low in the High School, Morrissey torna con un disco di 12 brani reinterpretati, scelti nell’impareggiabile produzione degli anni ’60 e ’70.
Il week end è quello delle elezioni europee e Moz insegna ad una docente italiana come utilizzare correttamente i termini classy e choosy.
La scelta dei 12 brani probabilmente parte dai testi, tutti pregni e densi di significati ed eventi.
Si ergono come colonne d’Ercole Only a Pawn in their Game di Bob Dylan, con un arrangiamento che amplifica ed esalta la scrittura ad incedere marciante del Premio Nobel, e Lenny’s Tune di Tim Hardin, senza dubbio il miglior brano originale tra quelli scelti.
Piacevole l’apertura con Morning Starship del compianto Jobriath (con il quale Morrissey avrebbe dovuto andare in tour, ma l’improvvisa scomparsa di Campbell lo rese impossibile), tuttavia un po’ troppi effetti nascondo le pailletes del glamer di Philadelphia.
It’s Over di Roy Orbison è il singolo che ha preceduto la pubblicazione del Long Playing, un brano di incredibile osmosi e trasmigrazione vocale tra i due artisti.
Meravigliosa la triade power poptown formata da Wedding bell blues di Laura Nyro, Loneliness remembers what happiness forgets di Dionne Warwick (The dark side of Burt Bacharach) e Lady Willpower di Gary Puckett & The Union Gap.
Quest’ultima, con un arrangiamento che dal pop anni ’60 riceve un’iniezione di fiati degna degli Earth, Wind & Fire.
Ma California Son è anche un lavoro a prevalenza femminile, il personale tributo di Moz alle più importanti cantautrici donne, forse non casuale in un’epoca esclusivamente di interpreti.
Scorre via con un arrangiamento fedele Don’t interrupt the sorrow di Joni Mitchell, ecco poi la Suffer the Children di Buffy Saint Marie nel mood Airplainiano, la romantica When you close your eyes di Carly Simon, così che aspetti che da un momento all’altro compaia nel salotto Emma Thompson.
Infine, il brano dall’arrangiamento più americano tra gli americani, Some I got the devil di Melanie Safka, senza ombra di dubbio la voce più bella tra quelle originali.
Unica nota stonata la versione forse troppo disincantata di Days of Decision di Phil Ochs.
California Son è un album ben suonato, ottimamente prodotto, che raggiunge un duplice obiettivo, personale e popolare: per Morrissey è l’occasione di interpretare brani che ama e diffondere, far ri-conoscere, artisti dai quali ha preso tanto e che sono tanto attuali quanto senza eredi ai nostri giorni.
Considerato il soggetto, del suo disco direbbe di guardare alla sostanza, non alla copertina: ne è prova il titolo.