In un’ennesima serata di pioggia autunnale che non dà tregua, il Locomotiv Club, a pochi biglietti dal sold out, accoglie la band inglese Temples.
Sono le 21.45 puntuali, parte la marcia: sarà infatti The Howl, tratta dall’ultimo album (Hot Motions, ATO Records, 2019) ad aprire il concerto.
Sul palco quattro personaggi che destano molta curiosità, a partire dall’outfit molto retrò e stiloso.
La loro disposizione in fila orizzontale è sicuramente una scelta di impatto e vincente.
Davanti, da sinistra, troviamo il chitarrista con una giacca rossa e nera scozzese e spille giganti; al centro il frontman James Bagshaw con giacchetta di pelle rigorosamente rossa e nera.
A seguire il bassista con giacca nera e camicia rossa con arricciature, giacca nera, e dietro Rens Ottink, il super batterista dai capelli lunghi biondi che non può che abbinarsi ai loro abiti.
I colori dominanti dei Temples sono dunque il rosso ed il nero, quasi come per voler richiamare la copertina del loro nuovo lavoro.
Il secondo pezzo sarà uno dei più noti, Certainty tratto da Volcano, con la sua tastiera che sembra simulare la musichetta di un gioco per bambini e si presterebbe benissimo ad un coro da stadio.
“Tonight is a special night, the first in a club in Bologna, thank you for coming” annuncia James con un velo di emozione.
Una speciale parentesi va aperta proprio a proposito di lui: al di là dell’estetica perfetta, il ragazzo possiede una grande personalità.
Si avvicina più volte a suonare tra il pubblico delle prime file, a tratti si scatena come un matto e lancia più volte al pubblico qualcosa, tra cui plettri, quasi come fosse una modalità per renderlo partecipe attivamente.
E poi, un episodio che diventa una “gag”: butta giù sul pubblico il suo asciugamano, ma tempo dieci secondi e gli verrà reso… in faccia.
Sistemandoselo in modo da coprirsi una parte del volto, suonerà l’intro di un pezzo di quelli lentissimi che andrà a sfociare in un delirio acustico, non una novità per la band.
Oltre all’abbigliamento, è tutto retrò: i capelli anni ’60 alla Led Zeppelin, le chitarre con le punte cattive, country o addirittura Fender super glitterate.
Il backliner diventa così quasi il quinto elemento della band, fondamentale per favorire l’avvicendarsi continuo di chitarre che scompaiono e ritornano, come fosse una mostra.
“It’s saturday night, so everybody dancing!”.
Dal primo all’ultimo album, il live porta una carica di indie rock psichedelico con influenze ben riconoscibili.
Le chitarre alla Beatles, ben identificabili in Shelter Song, le tastiere e i suoni cupi à la Hambug degli Arctic Monkeys, forse il disco che più sperimenta dopo i primi duemila indie-punk-rock e per questo messo in discussione da molti dei loro fan.
Questi elementi non sono altro che una sintesi efficace di altre epoche, ma non per questo direi che rappresenta una scopiazzatura, proprio perché osata con personalità, stile, tecnica ed energia.
I Temples coinvolgono molto con i brani più recenti, con una Holy Horses micidiale, che è una botta di rock, ed una Hot Motion, singolo accattivante dai ritmi ben definiti, con le sue luci rosso-calore.
Non si può fare a meno di notare che basso e batteria sono in perfetta sintonia, e danno quella spinta in più alla band, dal “marchio” facilmente riconoscibile.
Rientreranno sul palco per il bis dal finale degno di nota, per la parte più sorprendente del concerto in un crescendo dapprima di assoli simil blues, poi di suoni che ricordano come dinamica Rock and Roll dei Velvet Underground, che alla fine andranno a diventare sempre più cattivi con sfumature psichedeliche.
Dopo questa carica, il commento finale non può che essere un positivo: “Merda!”.
Ancora una volta vale la pena di passare una serata al Locomotiv.
Ottimo locale, ottimi Temples.