Sono passati quarant’anni dallo scintillante esordio di Rickie Lee Jones: un debut album capace di farle guadagnare un Grammy come “Best New Artist” e rivitalizzare un cantautorato folk al femminile fin troppo ancorato agli umori di Joni Mitchell.
Quarant’anni in cui la Duchessa di Coolsville, incoronata come “una delle migliori, se non la migliore artista della sua generazione”, è riuscita a rimanere a galla nonostante una carriera altalenante.
Una carriera certamente lontana dai fasti di quel primo disco e, soprattutto, del suo successore, Pirates (1981): capolavoro ancora pervaso da quell’attitudine a esplorare in modo anti-convenzionale la cultura americana.
Un approccio mutuato, con le dovute differenze, da Tom Waits, compagno di vita e scorribande notturne (è lei la musa immortalata sul retro di Blue Valentine) fino ai primi anni ’80.
Eppure, malgrado alti e bassi, luci e ombre (che le sono valse il Premio Tenco nel 2000), quella tendenza tipicamente beatnik è rimasta inalterata, portandola a contaminare, con invidiabile sensibilità pop, il folk, il soul, il jazz, il rhytm’n’blues e persino l’elettronica.
Un songbook ben radicato nella tradizione a stelle e strisce, punto di riferimento omaggiato a più riprese in ben cinque album di cover.
L’ultimo album, Kicks, l’ha vista approdare a Roma, nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica, per la terza di quattro date italiane.
Accompagnata dall’ottimo percussionista e vibrafonista Michael Dillon, Cliff Hines e Robbie Mangano (entrambi alle prese con chitarra, basso e tastiere), Rickie Lee Jones, pur visibilmente provata da un leggero attacco influenzale misto alla solita indolenza (ma fa parte del personaggio), ha dato vita a un’esibizione impeccabile che ha ripercorso le tappe fondamentali della sua carriera.
La Jones ha infatti volteggiato a suon di swing lungo quei boulevard decadenti che da Chicago conducono ai suoni di New Orleans, passando per quella Los Angeles cui deve tanto, forse tutto, a partire dal sodalizio con una lunga serie di poeti di strada capeggiati dallo stesso Waits.
Tra questi anche Chuck E.Weiss, protagonista del suo pezzo più celebre, Chuck E’s In Love, secondo estratto dall’album d’esordio dopo Weasel And The White Cool Boys, due grandi classici in bilico tra smooth jazz e blues.
Un fulgido esempio di uno stile raffinatissimo impreziosito dalla stessa voce maliziosa, sensuale, ancora capace di modulazioni fuori dal comune: un’eterna Lolita basco in testa e sigaro in bocca affatto scalfita dall’inesorabile scorrere del tempo.
Non fa eccezione la versione rarefatta di Coolsville, brano vertice del primo periodo.
Il pezzo è reso ancor più spettrale da atmosfere ora più sofferte, a tratti inquietanti, e dal trattamento minimal riservato dai suoi musicisti a tutti i brani del periodo, riletti attraverso arrangiamenti più scarni ma fedeli a quella struttura free-form tra jazz e psichedelia.
Stesso discorso per la splendida Bad Company, una delle perle di Kicks, avvolta da uno spleen tenebroso e angosciante piuttosto distante dal classico hard rock della band di Paul Rodgers.
Tra gli highlights della serata, ovviamente, anche l’immortale dittico, con ampie variazioni sul tema, da Pirates: We Belong Together, con i suoi sussurri da pelle d’oca e il suo incedere ad ampio respiro, e il crescendo drammatico di Living It Up.
Sono spaccati melancolici di solitudine urbana e cultura hipster, riflessioni esistenziali su una vasta galleria di flying cowboys e “falchi notturni” in attesa dell’orario di chiusura in qualche fumoso night di periferia.
Uno scenario ripreso e proiettato con estrema disinvoltura sul palco dell’Auditorium, non solo per le innate capacità interpretative di una Rickie Lee Jones ancora immersa nel “dark side” dell’alcolica provincia americana, ma anche grazie a una band perfetta.
I musicisti che l’accompagnano sono infatti in grado di dettare il mood dell’intero set sin dall’opener, Infinity (unica concessione all’ultimo album di inediti, The Other Side Of Desire).
Sanno anche donare nuova linfa a brani “anomali” come Scary Chinese Movie, tra gli episodi più oscuri di Ghostyhead, sbornia electro che non avrebbe affatto sfigurato nella discografia dei Radiohead post Kid A.
Tra melodie easy listening, digressioni di matrice jazz e struggenti ballate pianistiche, c’è anche spazio per The Magazine (Deep Space e Juke Box Fury) e Flying Cowboys (la title track), felice conclusione di una decade, quella anni ‘80, che l’ha vista risorgere dopo anni tormentati con l’aiuto del produttore Walter “Steely Dan” Brecker.
Gran finale affidato, in una sorta di struttura circolare che non prevede encores o cliché di sorta, a Last Chance Texaco: altro apprezzatissimo classico tratto dall’omonimo del 1979.
È l’ultimo atto di una serata dai risvolti surreali, sospesa in una bolla spazio-temporale.
Lo storytelling di Rickie Lee Jones – e il suo caratteristico crooning apparentemente infantile, ma sempre ricco di colori e sfumature – ha ricordato a tutti il perché di certe etichette, un tempo tanto ingombranti.
Un modello, una firma divenuta fonte d’ispirazione per generazioni e generazioni di chanteuse rock successive (chiedere a Suzanne Vega e Sheryl Crow).
Il trademark di una ragazza in giacca di pelle che ha scritto il suo nome per sempre.
di Francesco Sacco