Con tanti delusi per non aver trovato un ticket all’ingresso, rimasti ad annegare il dispiacere nei drink del giardino di Largo Venue, il melting pot nostalgico del duo napoletano Nu Guinea torna a Roma, con live band a seguito pronta a esorcizzare chiunque osi pronunciare la parola dj.
E il dispiacere è più che giustificato, data la qualità artistica e il coinvolgimento che il duo – ma è più corretto e meritocratico dire la band – ha espresso sul palco.
Qualità manifestata in più forme: da virtuosismi personali, espressi in trascinanti assoli di percussioni o sax, a melodiche orchestrazioni collettive che hanno trascinato il pubblico a “parapparapapeggiare” all’unisono, in un concerto che è difficile inquadrare in una determinata categoria.
La commistione di generi difatti è diventata ormai ordinaria nel panorama musicale odierno. Un tempo esclusivo retaggio della musica indipendente, si è ormai esteso fino ai lidi del mainstream (che musica fa Billie Eilish?).
Fa sorridere allora – per quanto non sbagliato – trovare i Nu Guinea categorizzati su Amazon nel genere “Dance, elettronica”, perché lo show a cui si è assistito non è niente di più lontano.
Volendo perdersi nei labirinti delle definizioni si potrebbe parlare di jazz – fusion – gomorra anni ‘70, ma liberandosi da questo elitarismo da etichette necessariamente da incollare su qualcosa, quello che esplode dal palco è uno spirito popolare che attecchisce su tutto il pubblico e lo trasporta in piazza.
Lo si intuisce in quello che è, personalmente, il metro per eccellenza della qualità di un concerto: il numero di cellulari sopra la testa. Per tutta la durata del live raramente ho visto qualcuno impegnato a registrare.
L’edonismo social era completamente subordinato rispetto alla piena partecipazione dell’evento. Il pubblico intero, dalle prime fino all’ultime file del locale stracolmo, impegnato a condividere le propria esperienza solo con gli artisti sul palco e con chi gli stava intorno. Vivere il concerto.
Non si intravadevano le facce di chi era lì perchè doveva dire di esserci stato, ma tutti erano lì perchè volevano davvero esserlo.
Due ore circa di show in cui la musica si è espressa nella sua forma più naturale – pochi i brani cantati – e un continuum di sonorità che dal vivo amplificano davvero quella sensazione di evasione tropicale che già si prova nell’ascolto dell’album.
Il trasporto di chiudere gli occhi e lasciarsi trascinare, lasciando perdere per
una volta la setlist e l’analisi dei singoli brani suonati.
Un’esperienza collettiva, comunitaria, un gran bel concerto.