A detta della madre di Paolo Sorrentino: se non potete parlare bene di una persona non parlatene affatto. Estendendo il concetto alla dimensione di un evento musicale, nonostante simil dominio e prossimità temporale non menzionerò allora una kermesse che si tiene a Torino giunta quest’anno alla ventesima edizione.
Parlerò invece tantissimo di Manifesto, boutique festival che di edizioni ne ha tenute significativamente meno ma ha mantenuto sin qui una bella tradizione di coerenza artistica.
Una consistenza e un’armonia negli anni nella definizione delle line-up assolutamente non scontate ed evidentemente importanti per un evento che si tiene in un’unica sala con il layout del doppio palco face2face alternato.
Se l’anno scorso l’impronta era più sbilanciata verso la world music, con Jolly mare e Populous a tenere alta l(italica)a bandiera, l’edizione 2022 riprende questo filone proponendo una selezione di artisti che non disdegnano la percussione pura, ma si espone di più verso la sperimentazione.
Una scarica nostalgica mi attraversa ripensando a uno dei live più belli ascoltato proprio qui 3 anni prima, quello di James Holden & the Animal Spirits – inevitabile termine di paragone con cui si dovranno confrontare gli headliners di queste due serate di base al Monk, rispettivamente per il day 1 e il day 2, Christian Löffler e Gold Panda.
Il venerdì a letteralmente aprire le danze c’è Capibara – aficionado performer qui alla terza partecipazione – che meriterebbe in realtà timetable più dignitosa rispetto a quella antemezzanottiana designata. Il producer romano ne è consapevole e decide allora non di scaldare il pubblico ma di mandarlo proprio a fuoco con una sgabberata da ritmi raverini tali che farebbero sicuramente infuriare il nuovo presidente del consiglio.
Un azzardo, ma lo stupore generale si accompagna a un altrettanto intenso sgambettamento collettivo che regala diversi sorrisi.
Loraine James a seguire abbassa invece il ritmo e ci porta su una dimensione più onirica-fluttuante. È un set fatto di tante variazioni uptempo ma il mood generale si attesta su quello dell’ondeggiata di circostanza.
A seguire c’è la performance di cartello della serata, l’artista da mare di cellulari alzati. Il maestro Löffler si prende il suo tempo, accorda la rhythm machine in quello che è un attacco lunghissimo, estenuante per le braccia dei tanti videomakers.
Un lento crescendo che produce un’atmosfera di coinvolgimento nella sala stracolma: pian piano i telefoni si abbassano portando in armonia tutti gli astanti, un rito collettivo, un cerimoniale da tribù.
Si aggiungono i bassi, sempre lentamente e in crescendo – producendo nel sottoscritto superficiali riflessioni sull’attesa e sul piacere che rimandano al claim di un famoso brand di alcolici. Il live ha i tratti di un’onda sinusoidale, un viaggio con picchi di cassa dritta e distensioni.
Due ore intense molto coinvolgenti, che si concludono con un sincero applauso verso lo sciamano da parte dei suoi adepti. “Na cosa de core” esclama qualcuno.
A chiudere c’è Deena Abdelwahed, accompagnata da uno sfortunato salto dell’impianto e conseguente black out acustico. Mi torna in mente il “Mannaggia ai problemi tecnici!” con cui si è sfogata WHITEMARY (che intravedo nel pubblico) qualche settimana prima allo Spring Attitude, colpita da analogo problema e a cui era andata significativamente peggio in termini di compromissione del set.
La dj tunisina invece riparte poco dopo senza troppi rimpianti con un’esibizione a base di electro-cumbia con sfumature medio orientali, portandoci fino alla fine della prima giornata.
Il Day 2 registra la stessa alta affluenza del venerdì. Vincenzo Pizzi & Jackson Kaki all’apertura si lanciano in un live più bilanciato rispetto a l’entrèe servita il giorno precedente, una buona commistione sperimentale tra ambient e tempo più incisivo, ben scandito.
Segue Indian Wells, accompagnato da una batteria dal vivo che impreziosisce il suo set. Il producer calabrese gestisce l’ora a sua disposizione facendo seguire diverse tracce – che si alternano con una segmentazione netta, per un repertorio abbastanza variegato con brani à la Jon Hopkins (uno in realtà) e altri più melodici.
Menzione anche per i visuals a tratti vertiginosi a tratti con messaggi positive thinking.
Gold Panda più tardi riprende lo stesso concetto di esibizione presentato dall’headliner della sera precedente. Anche qui il live è improntato come un percorso da far seguire al pubblico, senza soluzione di continuità, in una dimensione sognante in cui calarsi totalmente.
Il producer ci accompagna allora nella sua culla caleidoscopica, in quello che è un set tecnicamente ben fatto ma poco potente, forse fin troppo accomodante.
Nel confronto con Löffler in termini di coinvolgimento l’asticella è nettamente sbilanciata verso quest’ultimo, i cui beat seppur glaciali erano sicuramente più incisivi. Non so se alla base ci sia un’evoluzione espressiva simil Arctic Monkeys – più complessa e meno ritmata, ma nella mia suggestione ricordo mine da dancefloor come We work nights parecchio coinvolgenti mentre qui in sostanza il Britannico si è dimenticato di farci ballare.
A sopperire questa mancanza ci pensano comunque i boyz di Ivreatronic, che non cercano ricercatezza e menano di cassa dritta, non risparmiandosi sulle percussioni e portando a conclusione la sesta edizione di Manifesto, che si conferma anche per questa edizione una bella chicchetta nel calendario degli eventi elettronici capitolini.
di Alberto Ratto