È una serata qualsiasi a Milano, una di quelle serate dove ci sarebbe da fare tantissimo: un concerto, bere con gli amici approfittando del fatto che finalmente si possa riempire i locali senza distanziamento, stare a casa a non morire di freddo. Eppure, come sempre a Milano, ci si ritrova nell’ultimo posto che si era programmato: il Cox18, il vecchio Conchetta che aveva animato alcune delle serate più belle (come il concerto dei The Gluts o degli Zu) prima della pandemia, era ormai scomparso dal mio radar prima di questa serata atipica.
Dada Sutra, l’ultimo concerto all’aperto dell’anno, la polenta, l’alcol per scaldarsi, le persone che attaccano bottone (eh sì, non c’ero più abituato), un via vai di gente che mia madre definirebbe “brutti ceffi”.
Dada Sutra, o anche la Sandra Vesely il cui nome aveva circolato negli ambienti chiacchierati dell’internet musicale, è un progetto indefinibile: perché qui dentro c’è poesia nordafricana, testi in francese, testi in italiano, testi in inglese, cover di Nick Cave, atmosfere notturne, melodie bassocentriche, tanto stile.
Arriva sul palco con un tulle rosso sulle spalle, uno sguardo complice ai musicisti e inizia la magia. La cosa veramente assurda è che un progetto come quello di Caterina Kaj Dolci, questo il nome di quella ragazza magra con il caschetto che vedo sul palco, in Italia è qualcosa di incredibilmente raro.
Quando, timidamente, annuncia che sta per iniziare un brano che lei ha scritto in italiano, inedito, l’effetto è straniante: si parla di alieni forse, alieni immersi in salsa prog, kraut e new wave, emergendo dagli anni Ottanta ed entrando a gamba tesa nel 2050. Il tutto con un pubblico che fuma infreddolito, stringendosi nei cappotti e inalando i fumi di cene fumanti e proletarie.
Di Dada Sutra conosciamo Panopticon e poco altro, un’interessante Big Boy e una personalissima versione di Red Right Hand del sacro Nick Cave: una ragazzina timida che non ha paura di scontrarsi con i mostri sacri, e ci riesce anche incredibilmente bene.
Con lei anche i virtuosi Vincenzo Parisi alle tastiere e Giacomo Carlone alla batteria: un caos di generi che può essere benissimo la colonna sonora di un remake di Twilight Zone.
Se capitano dalle vostre parti, sia che siate qui o su Marte, non perdeteveli.
foto di Simone Pezzolati