Uno potrebbe anche dire che i Cosmetic siano un assaggio dei Verdena di Solo un Grande Sasso. Un po’ è vero, ma sono molto di più.
Lo ammetto: prima non li avevo sentiti neanche nominare.
Credo anche di aver fatto anche una figura barbina parlando con la new entry a sostituire Erica Terenzi dei Be Forest al basso, che a sua volta sostituiva una maternità.
Le ho chiesto se quello che avevano appena suonato fosse il loro primo disco non sapendo che prima di Plastergaze avessero una carriera ben più lunga alle spalle.
Certo, sul palco sono stati perfetti: ammirevoli i suoni, bella l’alternanza voce maschile e femminile, la potenza e la precisione dei colpi di batteria.
Bella l’attitude grunge in cui sfuggono dalla noia/paranoia e dal male di vivere, ma di questi tempi è sempre più difficile distinguere il paradiso dall’inferno.
Non ho capito bene perché ogni tanto comunicavano col pubblico in inglese e altre volte parlottavano tra loro come una band agli esordi, nonostante abbiano ben sei dischi alle spalle a partire dal 2007.
In ogni caso il pubblico ha apprezzato molto, poi hanno lasciato il palco ai Be Forest.
Avete presente i disegni che la limatura di ferro che assume su un foglio di carta a contatto con una calamita?
Il magnetismo dei Be Forest, come da disco così in live, è tanto imponente da generare linee di forza di un campo magnetico che cattura i sensi del pubblico in un buco nero supermassiccio.
Un campo gravitazionale così intenso da non lasciare sfuggire né la materia, né la radiazione elettromagnetica.
Una regione dello spazio-tempo avente una curvatura sufficientemente grande, relativisticamente parlando, che nulla al suo interno può uscire all’esterno, nemmeno la luce.
Ma niente paura, per entrare nel loro mondo basta bussare alle porte della notte.
La chitarra spettrale di Nicola Lampredi sembra generare lei stessa gli sbuffi della macchina del fumo che illuminati dalla luce dei faretti sono come fuochi fatui sul palco.
I timpani di Erica Terenzi riportano a un primitivismo generale che ti ricordano nuovamente che sei un mammifero e ne sei felice, ti lecchi i baffi. È difficile seguire i movimenti delle sue bacchette nonostante siano ricoperte da un involucro arancio fluo. L’assetto minimale ha fatto sì che l’ingegno di Erica esplodesse in soluzioni ritmiche alternative, lasciando dietro di sé una scia di cometa, come le bacchette fluo che maneggia.
Tutti i componenti, compresa la voce di Costanza Delle Rose, vengono utilizzati in qualità di strumenti a percussione (come nel periodo d’oro dei Velvet Underground), per sostenere una sorta di bordone che dà forza a tutto il resto.
Questo non vuol dire che non ci sia raffinatezza musicale all’opera: vuol dire solo che si tratta di raffinatezza tutta di pancia, di un istinto risoluto, piuttosto dell’approccio cerebrale.
Se anche non capiste una parola di inglese non vi sfuggirebbe di sicuro la forza emotiva della musica dei Be Forest.
Ogni canzone monta come un ribollire inesorabile, una tendenza alla lussuria e al rischio che vi scuote e non vi fa mai dimenticare che finalmente state ascoltando qualcosa di diverso.
Tutte le canzoni contengono dei veri “momenti”, che vanno ben oltre la sensualità smaccata e si spingono in sfere emotive che sanno dare i brividi.
Questo nonostante Knocturne sia quasi un flusso di musica unico e costante, come lo dimostrano gli applausi del pubblico, che assorto si dimentica che ci sono delle leggere pause tra un pezzo e l’altro, sempre accompagnate da un noise di sottofondo.
Quando il pubblico si risveglia per un attimo, gli applausi sono vere e proprie standing ovation.
Raramente mi capita di assistere a scrosci così lunghi e sentiti.
L’ultima volta al concerto degli I Hate My Village, in Santeria Toscana a Milano, dove i tratti comuni col pubblico dello sPAZIO211 rasentano la sacralità di un rito religioso.
Guai a chi fiata, guai a chi si distrae (il che è impossibile).
Una specie di ipnosi collettiva, uno stato alterato di coscienza di massa; nei ritmi ossessivi la chiave, dei riti tribali regni di sciamani e suonatori zingari ribelli.
di Mattia Muscatello
foto di Federica Da Lio