Due giorni di festival e una preview tra gli ulivi, proprio al centro della Calabria. Il Color Fest si conferma, nonostante il terribile momento storico, uno degli spazi privilegiati del cosiddetto “indie italiano”.
Ma anche quest’anno, il Color Fest mantiene la sua costante attenzione verso i progetti di nicchia e sfodera nuovamente il suo respiro internazionale.
Permettetemi però di fare un piccolo, personale, passo indietro.
Erano i primi giorni dell’ottobre 2012 quando partecipai alla realizzazione di uno spot per promuovere una piccola rassegna musicale, che aveva già una linea ben definita.
Si chiamava “Color. Rassegna di musica intelligente” e avrebbe portato a Lamezia Terme (CZ), in quella prima edizione, tra gli altri, i live di Iori’s Eyes, Bob Corn, Marco Parente, La fame di Camilla, Cesare Basile, Ettore Giuradei.
I palloncini colorati di quello spot sono cresciuti di numero e arrivati molto in alto, perché ormai da diversi anni il Color Fest è diventato uno dei festival musicali più importanti d’Italia.
Già da quella prima edizione era chiara la volontà, anzi la determinazione a portare anche a Sud l’underground nazionale, nonostante il festival nascesse in un territorio raramente pronto a scommettere sui giovani e sui nomi “altri”.
Il festival infatti, negli anni, accanto ai grandi nomi (da Brunori SAS ai Verdena, dai Marlene Kuntz agli Afterhours) e agli idoli del pubblico più giovane (da Motta a Franco126, da Ariete a Venerus) ha sempre trovato posto anche per proposte meno “facili” (dai Massimo Volume ai Gazebo Penguins, da Laura Agnusdei a Iosonouncane). E nel 2015 ha ospitato anche l’industrial rock dei Soft Moon di Luis Vasquez, in una delle parentesi internazionali che, personalmente, spero il festival possa incrementare.
Perché c’è grande fame di musica in questo Sud ancora troppo spesso fanalino di coda e che, grazie proprio ad eventi come il Color Fest, negli ultimi dieci anni era riuscito a far venire fuori una forte presenza di operatori del settore musicale dal vivo attenti, attivi e, in molti casi, audaci.
Una fioritura e un entusiasmo che la pandemia ha bloccato quasi del tutto, mettendo il freno ad una economia giovane che, seppur di nicchia, stava iniziando a convincere qualche istituzione di quanto fosse importante l’indotto economico creato sul territorio dai festival e dalle manifestazioni musicali.
La Preview con Stuart Braithwaite
La nona edizione del festival ha preso il via martedì 10 agosto con una preview che ha visto protagonista Stuart Braithwaite, leader dei Mogwai, la band scozzese che ha cambiato il corso della musica segnando il passaggio dal rock al “post-rock”.
La serata è stata aperta dal nuovo progetto del musicista Luca Vittorino (componente dei McKenzie, che sono poi stati tra i protagonisti della prima giornata del festival). Il progetto si chiama Aquerell, e lo vede a fianco di un altro musicista lametino, Carlo Scali.
Un pubblico attento e rilassato aveva preso posto sul prato, ognuno col proprio asciugamano e il proprio piccolo, grande spazio. Questa condizione, già sperimentata nei pochissimi festival rimasti attivi durante la scorsa estate, per quanto mortifichi la fruizione collettiva dei live, inizia a diventare una forma consueta e non priva di alcuni vantaggi. Come la possibilità di una maggiore concentrazione, oppure il piacere di ascoltare la propria musica preferita guardano le stelle e in totale relax, anche fisico.
Stuart Braithwaite ha riproposto in versione a solo una serie di brani dei Mogwai e alcune cover di artisti a lui molto vicini. Questa formula, con la quale a inizio agosto ha realizzato un tour lungo l’intera penisola, negli anni scorsi era stata preceduta da alcuni appuntamenti simili in diverse location italiane e prelude, probabilmente, all’uscita di un disco solista.
Il live già realizzato in zona nel 2015 all’interno del festival “Suoni Pindarici” dal quale, secondo quanto affermato da Stuart stesso, è nata tutta l’idea del suo progetto solista, lo potete vedere integralmente qui.
Si parte da Teenage Exorcists, per passare alla più recente We’re not Done e stupire poi tutti con una personale rivisitazione di Insight dei Joy Division. Il tuffo nel passato prosegue con Cody (brano di punta del secondo album dei Mogwai Come On Die Young). Si ritorna poi ad un classico più recente della band scozzese con Party in the Dark.
Oltre alle cover What are they Doing in Heaven Today del bluesman Washington Phillips (pioniere, a inizio Novecento, del gospel) e a You’ll need Somebody on Your Bond di Blind Willie Johnson (anche lui tra i maggiori interpreti del gospel nel periodo della grande depressione), Stuart ha regalato al pubblico del Color Fest due dei brani più conosciuti dei Mogwai: Take Me Somewhere Nice e Ritchie Sacramento.
Un evento, questa preview, che si incastona come un piccolo gioiello in un momento in cui apprezzare la bellezza delle forme d’arte più penalizzate dalla pandemia dovrebbe essere la prima delle nostre priorità.
Giovedì 12 agosto, prima giornata
Ma veniamo al primo vero e proprio giorno di questa nona edizione del Color Fest, battezzata col titolo “Una questione di qualità“.
Ad aprire la maratona musicale è il live della giovanissima Marat, al secolo Marta Lucchesini, cantautrice romana vincitrice del contest “Supenova”, che ha decretato le due nuove proposte inserite ad apertura delle due giornate di festival. A seguire il potente live dei McKenzie.
Giocano in casa, loro, essendo lametini, ed avendo già suonato al Color. Subito dopo l’attacco con Sergio, brano tratto dal loro primo disco Falena, i McKenzie portano qui a battesimo alcuni brani del disco nuovo, Zooloft, uscito proprio nella stessa giornata. Del loro Falena avevamo parlato qui.
Oltre alla title track, infatti, ascoltiamo live per la prima volta Cocorita, Cavallette, il primo singolo tratto da questo nuovo disco, Medusa, la travolgente Varenne, uscita pochi giorni fa come secondo singolo. E infine Murene (su disco gli ultimi due pezzi sono impreziositi dai violini di Nicola Manzan, aka Bologna Violenta). Un rock che si muove tra chitarre anni ’90, urgenza punk, post hardcore e influenze emo.
Testi taglienti rigorosamente in italiano e una grande determinazione che ha portato il giovane trio su altri importanti palchi, quali quello del Rock in The Castle 2018 di Verona (in apertura a band del calibro degli A Perfect Circle).
A seguire i McKenzie è il live di una giovanissima band, i padovani Post Nebbia, tra le cose più piacevoli sentite in area indie negli ultimi tempi. La loro esibizione prevede una serie di brani tratti dal loro secondo disco, Canale paesaggi, uscito nel 2020. Si susseguono Persone di vetro, Luminosità alta, La mia bolla, Televendite di quadri, Nuoto sincronizzato.
Testi intelligenti, scritti e popolati da ventenni il cui paesaggio di riferimento è quello dei canali regionali e commerciali della tv satellitare. Raccontano di esistenze e rapporti mediati da continui schermi. Di vite protette ognuna dalla propria bolla, che da porto sicuro diventa prigione, limite, livellamento verso il basso.
Anche la Storia è mediata dalla narrazione tipica dell’universo delle immagini (il Vietnam è, infatti, un flashback). E nella loro scaletta c’è spazio anche per il nuovissimo singolo, Veneto d’estate.
Un sound, quello dei Post Nebbia, che è già ben riconoscibile. Ritmi slow, spesso al limite del low–fi, un basso e dei synth spudoratamente anni Settanta. Una sfrontata leggerezza che sembra voler dissimulare una ricerca sonora molto precisa. Una scrittura forse ancora un po’ acerba, ma che ha in sé ottime potenzialità.
La definizione “psichedelia” o il continuo riferimento a gente come Tame Impala, letti nei loro riguardi, trovo stiano stretti al progetto di Carlo Corbellini, cantante, bassista e autore di tutti i pezzi dei Post Nebbia. Da tenere d’occhio.
Il pomeriggio al Color Fest scivola tra chiacchiere e indie nostrano fino al grande evento che chiude la prima giornata del festival: il live di Iosonouncane.
Il palcoscenico si riempie con tre postazioni elettroniche. Questo main stage non dà più sul prato ma sull’asfalto, ancora rovente grazie ai 40 gradi sfiorati durante il giorno, nonostante siano le undici e mezza di sera. Stendersi sul proprio telo sembra equivalere a sottoporsi ad una, personalmente, piacevolissima seduta di fisioterapia.
E il religioso silenzio che accompagna l’avvio e l’intero live di Iosonouncane somiglia molto ad una terapia.
Quella che molti di noi cercavano in un tempo di restrizioni, rinvii continui, perdita del calore del contatto e della possibilità dell’ipnosi collettiva e catartica che alcuni live portano con sé. La capacità di Jacopo Incani è stata proprio quella di riportarci, nonostante tutto alla catarsi tanto attesa.
Il primo pezzo a partire è Pétrole. Inizia l’incrocio delle lingue e dei synth. Il continuo riverbero e la trama densissima intessuti dai tre musicisti ci colpisce quanto le poche, spesso incomprensibili, parole che Jacopo quasi sussurra. Quasi a testimoniare l’inesistenza persino delle barriere linguistiche quando a investirti è ben più che una semplice canzone da ascoltare. Il muro sonoro è lì davanti e tutto intorno a noi. La scaletta prosegue con Foule, il ritmo si fa più lento e si avvia sempre più verso la trance.
I tempi dei brani sono, o almeno si percepiscono come infintamente dilatati. Il terzo brano, Prison già su disco lungo quasi dieci minuti ci trasporta completamente in un universo parallelo. Qualcuno, com’è giusto che sia, inizia ad allontanarsi. Per un festival è naturale offrire spaccati musicali di diversa e varia provenienza.
I loop sonori e il cantato estremante “duro”, a richiamare quasi le parole di un dittatore declamate dall’alto non sono sicuramente di facile fruizione. Ma chi ha apprezzato Ira, ultimo, monumentale, disco di Iosonouncane, non aspettava altro che essere investito dalla potenza che sprigiona ogni singolo brano.
Lo stato quasi ipnotico continua con Ojos, che diventa una nenia dalla durata che è difficile quantificare. I suoni sono dilatati, i brani è come se si aprissero, ma la violenza del muro sonoro costruito non arretra di un millimetro. E tutt’a un tratto si fa un salto indietro nel tempo fino al disco precedente, Die, uscito nel 2015. Da quel disco Jacopo ripropone Buio, in un ri-arrangiamento che la inserisce perfettamente nel flusso sonoro di Ira, modificandone soprattutto lo stile del cantato, ormai lontanissimo da quello usato per quel disco.
La rivisitazione continua poi con Tanca che, per quanto riguarda il sound, oggi possiamo dire essere il brano che anticipa maggiormente quella che sarebbe stata l’evoluzione sonora del musicista sardo.
La trance continua con Niran e arriva a durare più di un’ora e mezza, culminando con Hajar, ultimo brano a chiudere la scaletta del live. Un pezzo infinito, una lunga lunghissima coda che sembra non volerci più lasciare. In realtà siamo noi a non voler accettare che il concerto sia finito. Mi alzo a fatica, anche perché la mia attesa dei tre brani più ascoltati negli ultimi mesi (Hiver, Piel e Nuit) è stata delusa.
Il live non ha previsto nessuno dei tre brani di Ira che presentano una sorta di apertura melodica in questo squarcio sonoro che Iosonouncane è capace di costruire così magistralmente. Finisco col chiedermi chissà perché.
Misurarsi con la melodia non è certo cosa nuova per Jacopo. Ce lo ha dimostrato in maniera magistrale con il singolo uscito a novembre 2020, in cui oltre alla cover di Vedrai, Vedrai di Tenco avevamo avuto modo di apprezzare quel gioiellino che è Novembre. Un personale culmine disatteso, ma che non ha scalfito l’esperienza immersiva di un live (e di un disco) unico in Italia.
Nel 2018 avevamo realizzato due suoi live report, che trovate qui e qui.
Venerdì 13 agosto, la chiusura
Il 13 agosto è l’ultima giornata di festival ed è dedicata soprattutto agli idoli indie delle ultimissime generazioni. Guardandosi attorno, infatti, ci si accorge subito che l’età media del pubblico si è notevolmente abbassata rispetto ai giorni precedenti. Le danze sono aperte da Lapara, band pop lo-fi anch’essa vincitrice del contest Supenova, a cui segue il brioso live di Praino.
Francesco Praino, cantautore dal piglio rock ‘n roll di origini calabresi ma di stanza a Bologna, è in realtà un polistrumentista. Ha iniziato suonando la batteria e passando poi anche a chitarra e basso.
Il suo progetto ha un seguito già fedele. Canta in coro i pezzi che conosce a memoria e segue il loro ritmo incalzante, nonostante il grande caldo che ancora la fa da padrone. Vorrei essere una foresta, Morderti e Bruci il mondo, i tre singoli usciti tutti in questo primo scorcio dell’anno, dal vivo guadagnano decisamente molto. A questi si aggiungono anche ben tre inediti. La formazione è classica e ben affiatata: voce, due chitarre, basso, batteria.
Se volete sapere qualcosa in più su Praino, qui trovate una sua intervista.
L’ultima serata al Color Fest è ad appannaggio dei giovanissimi. Alcuni di loro cercano di carpire l’attenzione di Venerus dalle finestre dei camerini, proprio come ogni buon adolescente fa col proprio idolo, destinato a rimanere irraggiungibile. E Venerus chiude la serata e l’intero festival con un live multicolore.
Grazie alla sua grande versatilità tra canto, chitarra e pianoforte, grazie alla bravissima corista, Arya Delgado, alle coreografie e ai musicisti che lo accompagnano, Venerus inscena un vero e proprio spettacolo.
Il live è lungo e rende giustizia delle innumerevole influenze assorbite dal musicista. Dal pop al soul, dall’indie all’elettronica, non disdegnando digressioni jazz e chitarre anni Settanta.
Vi avevamo raccontato del suo live alla Rocca Malatestiana di Cesena giusto qualche giorno fa . Mentre qui trovate una sua intervista, realizzata qualche anno fa.
Il pubblico di Venerus e Ariete (l’altra headliner della serata, del cui primo disco ci eravamo occupati qui ) è giovane ma già fedelissimo e numerosissimo.
L’avventura è conclusa, i tre giorni trascorsi in fretta, nonostante si è stati sin dalle 17 ad ascoltare musica sotto il sole cocente. Ma quale potrebbe essere un’abbronzatura migliore di quelle presa a ritmo della musica suonata e cantata dal vivo?
E ancora prima di congedarci da questa edizione, il Color Fest promette faville per la prossima. Arriva infatti già l’annuncio per il 2022 di tre giornate di musica (11-12-13 agosto) e grandi festeggiamenti per la decima edizione del festival.
Andando via noto, con stupore, in tutta la parte del parcheggio vicina all’uscita una colonna di auto in seconda fila. Strano, penso. La vigilanza è stata molto scrupolosa in tutto. Poi mi avvicino e mi rendo conto che le auto di questa seconda interminabile fila hanno tutte all’interno genitori che aspettano l’uscita dei propri giovanissimi figli. Li hanno accompagnati al loro festival/live del cuore e ora li stanno aspettando col braccio fuori dal finestrino. E vado a letto con una gran bella sensazione nel cuore.