Ottavo episodio
Il nostro primo disco è una figata
Il nostro primo disco è una figata. Ci abbiamo messo un bel po’ per i miei gusti, qualche settimana o forse mesi, soprattutto perché, essendo in presa diretta, non potevamo sbagliare nemmeno una nota. Ma ora che è finito – e quello che è venuto fuori ci teniamo, non abbiamo i mezzi per infighettarlo al computer – siamo ultramegagasati. Non riesco a pensare ad altro. Sono incredibilmente fiero, dieci pezzi cazzutissimi, alcuni che sfiorano i dieci minuti di durata alla faccia di qualunque compromesso. Ma tanto abbiamo sedici anni, veniamo dalla provincia e non conosciamo nessuno: andare in radio o in televisione, al momento, non è certo un nostro obiettivo, e comunque qualche pezzo di quattro minuti nel caso lo abbiamo.
Vogliamo suonare, quello sì, fracassare qualche timpano, far innamorare le ragazze carine e, se possibile, indignare qualche bigotto – e qua di certo non mancano.
Il padre di Luis, inspiegabilmente, possiede un aggeggio che converte il nastro delle audiocassette in cd. Il gioco è fatto, adesso sì che sembra una cosa seria. Come copertina è stata approvata la mia idea di mettere una fotografia un po’ ritoccata raffigurante una statua della cattedrale di Reims di un angelo dal sorriso beffardo. Bella eh? Tutti ci credono angioletti e invece siamo dei diavoli ubriachi di rock’n’roll! Sul retro una nostra fotografia da vera rock band con sguardo rivolto al cielo che per l’occasione abbiamo colorato di rosso porpora. I capelli lunghi miei e di Luis sono controbilanciati da quelli corti di Kem e Drieu. Iniziamo così a spacciarlo a scuola, cercando di recuperare solo quello che abbiamo speso per fabbricare le copie, e per la prima volta in vita mia ricevo dei complimenti sinceri da parte di un coetaneo di un’altra terza superiore, rimasto impressionato in particolar modo dai miei testi. Il mio ego esplode. Mi vergogno anche un po’ perché mi sembra tutto molto più grande di me e non voglio che i professori o i miei compagni fighetti giudichino – ovviamente in modo negativo – le mie canzoni.
Dopo qualche tempo arriva anche la prima recensione sul giornalino scolastico a opera di uno pseudometallaro di un’altra sezione.
Ci elogia spudoratamente, ma scrive anche che l’unica cosa a non convincerlo è il mio modo di cantare da forsennato urlatore.
Brutto bastardo, lo odio. Questa è la mia band, l’ho forgiata io, non può piacerti tutto tranne la cosa più importante! Ogni volta che incrocio per caso il suo sguardo durante l’intervallo abbassa la testa, consapevole di avermi ferito profondamente.
Arriva anche una grande occasione: suonare in un festival underground piuttosto importante che quest’anno si tiene nella nostra città. Fantastico. Peccato che il posto scelto per suonare sia il centro sociale più lercio di tutta la provincia e quando i genitori di Kem l’hanno saputo gli hanno rigorosamente proibito di metterci piede. Incredibile, prima vi parlavo di bigotti…
Così, non so bene perché, decidiamo di convocare un’imbarazzante riunione a casa di Luis in cui presenziano i suoi genitori, il padre kamikaze di Kem, io (figuriamoci se lo dico ai miei, non mi frega un cazzo di quello che possono pensare a riguardo) e basta – Drieu giustamente se ne fotte. Risultato: il padre di Kem, indottrinato dalla moglie, ha nuovamente proibito al figlio di partecipare a questo atto sovversivo.
Motivo: sulla parete esterna del centro sociale c’è un murales che raffigura un mirino con al centro un poliziotto. Inaccettabile per dei bravi cittadini. Senza batterista non andiamo da nessuna parte e così ci accontentiamo di suonare in luoghi meno politicizzati e possibilmente senza murales.
Per quanto mi riguarda della politica non mi frega un cazzo, sono un rocker anarchico.
Una svolta inaspettata avviene però quando esce una recensione del disco sul più importante forum-web dedicato alla cultura underground della città, a opera di un ragazzo di qualche anno più grande di noi, una sorta di Lester Bangs di provincia innamorato di tutto ciò che è rock’n’roll, e per questo anche della nostra band. Si fa chiamare Chuck, porta i capelli lunghi e pantaloni rigorosamente a zampa.
Non so come abbia fatto a ritrovarsi in mano il nostro disco, ma ne parla entusiasticamente, senza pregiudizi sulla nostra età, definendoci una bella scoperta per la scena rock cittadina, che in questo momento – dopo la prima grande sbronza grunge dei Novanta – ha bisogno di una boccata d’aria fresca.
Sì, eccoci, siamo qua, siamo noi la nuova promessa del rock’n’roll.
di Malatesta