Il cantautore dalle due vite artistiche ha portato al Monk uno show intimo ed essenziale.
Dopo sette dischi incisi come Moltheni e cinque come Umberto Maria Giardini, un album pubblicato con i Pineda (alla batteria) e uno con gli Stella Maris, più una serie infinita di collaborazioni di canzoni, ieri sera il cantautore marchigiano ha puntato principalmente sulla sua seconda vita artistica e direi che è anche legittimo.
Il club romano, per una sera, si è trasformato in un teatro con luci soffuse e sedie per il pubblico. Umberto ha portato in scena un set ridotto all’osso: solo l’uomo, la sua voce, una Fender Telecaster, una Epiphone ES e le sue storie.
Nonostante una pedaliera di effetti notevole, le chitarre sembrano quasi scomparire per dare spazio ad una voce potente, solida e allo stesso tempo fragile e introspettiva.
Umberto Maria Giardini suona e canta e lascia poco spazio per interagire con il pubblico che si scioglie in applausi tra una canzone e l’altra.
Se pensiamo agli arrangiamenti con tutti gli strumenti delle sue canzoni, un live in solo sembra un albero d’autunno che vuole solo riposare e stare in disparte ai margini di un bosco, ma non per questo le sue canzoni sono meno belle.
In questi casi, e di questi tempi, poi è importante fare i conti con la realtà: senza un disco in promozione e neanche un singolo recente su Spotify, il Monk pieno di martedì sera è indice del fatto che Umberto Maria Giardini ha un seguito notevole. Fan attenti e appassionati che sanno dove vuole arrivare l’artista, che sa farsi capire anche senza troppi convenevoli.
Lo show chiude con un mini bis dove trova spazio addirittura una sua versione di Waiting for the Sun dei Doors.
È lì, sulla “riva della libertà”, che si capisce veramente l’immensità dell’artista.
foto di Giulio Paravani