In una gremita sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. In un altrettanto gremito Teatro Antoniano a Bologna. Luci soffuse, tre colonne di neon, chitarra, batteria, basso.
L’essenziale è la sublime bellezza della musica dei Low, che abbiamo seguito in due date del loro passaggio in Italia.
Di ritorno da un festival estivo in Nord Europa, discutendo della noiosa performance di una band texana dreampop/slowcore di successo, la conversazione si è banalizzata sulla massima secondo cui l’apprezzamento di un’esibizione sia assoggettato dalla vicinanza dell’ascoltatore al genere musicale della band in questione. Lo stesso principio secondo cui puoi davvero godere di una sigaretta dopo il sesso solo se sei un fumatore, altrimenti non l’accendi.
Per chi si accontenta di andare a un concerto per vedere dal vivo i propri beniamini, probabilmente l’analogia di cui sopra risulterà sensata.
Questo approccio tuttavia esclude la componente emotiva che un’esibizione può regalare. Il coinvolgimento che trascende il mero cantare in coro le canzoni a memoria, arriva piuttosto ad aggiungere un quid a quell’ascolto privato. Rompere la distanza di una registrazione e creare una sinergia con chi è sul palco, entusiasmarsi.
Nella perfetta location del Parco della Musica, i Low hanno entusiasmato.
Un entusiasmo statico, intimo, da luci soffuse su uno stage essenziale con l’acustica di tre strumenti. La deriva elettronica degli ultimi album lasciata fuori. Nessun synth, chitarra e basso gli unici elettrofoni sul palco.
Questo nonostante Double Negative, la loro ultima produzione, sia stato comunque l’album più suonato dell’esibizione; con i nuovi brani rivestiti da un’aura “electro-free” ricca di distorsioni.
Lo storico che assimila il nuovo, avvolgendo l’esibizione in un continuum di canzoni tratte da 9 album perfettamente amalgamate una dopo l’altra. Canzoni di una band che in 25 anni di carriera non ha mai messo in fila due dischi uguali, ma che riesce a fondere questa vastissima produzione in un flusso unico, incredibilmente caratteristico.
Comodi sulle poltrone ci si abbandona in questa liturgia, ognuno nella sua compostezza. È difficile descrivere l’intensità con cui i brani ti raggiungono, così potenti, seppur nella loro intima essenzialità. La compostezza allora diventa incontenibile, scossa da qualche sussulto improvviso che non si riesce più a trattenere, un’emotività che deve necessariamente trovare sfogo.
Si manifesta allora nelle mani di chi mi siede accanto, forti nello stringere il bracciolo della poltrona al culmine dei 14 minuti di Do You Know How to Waltz?. Un tunnel schizofrenico interminabile; un’oscillazione armonica di chitarre e basso.
Intensissima, estenuante, da far quasi insinuare il pensiero che sia un esercizio di stile fine a sé stesso, ma che infine si dissolve, sciogliendo ogni dubbio, con la magnifica Lazy. Incantevole.
Nella donna di fronte a me, nel suo lieve sobbalzo appena percepisce l’inconfondibile attacco di Lies, con le mani che fremono, ma non sentono la necessità di cercare il cellulare per registrare quello che è il suo brano preferito. I suoi occhi lucidi che accompagnano tutta l’esecuzione del brano.
Nelle facce incantate di chi, terminate le due ore di esibizione, rimane seduto, senza fretta di andare via, a respirare ancora quell’atmosfera.
Nelle parole di un’amica che, commentando nella cavea appena fuori dall’Auditorium, pronuncia: “che fortuna essere venuta, mi sarei persa uno dei concerti più belli della mia vita”.
di Alberto Ratto
Foto di Massimo Serena Monghini