Ho visto il miglior concerto della stagione del Monk quasi per caso.
Mi autodenuncio subito: non conoscevo i Cloud Nothings fino ad una settimana fa.
Inoltre non credo che sarei mai andato al concerto di mia spontanea volontà per una serie di motivi: uno, non li conoscevo (vedi sopra); due, avevo sentito il loro ultimo disco e mi era piaciuto molto ma non ero pronto per una serata alt-rock, di solito massicce come il granito; tre, ero già impegnato in un’altra serata, da un’altra parte di Roma.
Invece tante volte il destino è beffardo. Con la scusa che un collega non poteva più coprire la serata al Monk, ho chiesto a Mattia se le andava di fare di due scatti anche a questo gruppo di Cleveland, Ohio.
Siamo arrivati a concerto appena iniziato e ci siamo ritrovati davanti ad un’esplosione di suono hardcore-punk suonato a tutta velocità.
Occhi e orecchie non riuscivano a seguire tanta precisione per ritmi così violenti e rapidi: mi sono dovuto infilare con la testa dietro la tenda delle quinte per vedere se il batterista fosse lì dal vivo o se, al suo posto, non ci fosse invece una drum-machine a forma di umanoide.
E invece i Cloud Nothings erano lì in carne ed ossa capitanati da Dylan Baldi, giovane cantautore dall’aria nerd. Il suo stile – cappellino da baseball, camicia spiegazzata e sneakers – sembra voler interpretare un’altra epoca, quella della musica rock degli inizi anni Novanta, quando lui di fatto è nato (Dylan è del 1991).
E in effetti, ascoltando i sei dischi in studio dei Cloud Nothings, si ritrova un po’ tutto di quel periodo: dal garage al college rock, dal noise fino al grunge. Il tutto miscelato con sapiente solidità nei testi, tempi e accordi.
Al decimo anno di attività, la band di Baldi sta portando in scena l’ultimo lavoro: Last Building Burning, 8 tracce per poco più di mezz’ora di musica a tutta velocità. Tanto rapida che la prima volta che ho sentito il disco – ero in scooter di ritorno dal lavoro – sono arrivato al portone di casa con il fiatone.
foto Mattia La Torre , testi di Damiano Sabuzi