Se dovessi scrivere di musica, non starei qui a scriverne.
Non è tanto il fatto di dover scrivere di musica, perché è una cosa che mi piace, ma scrivere di musica in senso stretto mi annoia parecchio, è sempre stato così, anche leggerne. Da quando ho coscienza musicale e lessicale allo stesso tempo, disdegno gli onanismi di chi recensisce dischi per parlare di se stesso, mi fa venire l’orchite.
Avete mai visto un vostro amico che vi porta un disco da ascoltare e inizia a parlarne come se fosse un’enciclopedia, con quel fare didascalico e asettico? Non credo proprio, e se vi è mai capitato, mi dispiace per voi.
Nella storia della musica mondiale, la scelta del nome di una band è la cosa più difficile del mondo, non è come dare il nome al proprio nascituro, è qualcosa di estremamente delicato e non c’è cambio all’anagrafe che tenga per lavare via il ricordo che avranno di voi e della vostra band con quel nome orrendo.
Pensate a farne cinque di dischi con un nome da adolescenti arrabbiati che si ubriacano con litri di latte doppio: The Magic Numbers. Loro, per esempio , sopravvivono ancora all’onta, e con una certe dose di coraggio e dignità; evidentemente, Michele e Romeo Stodart i fratelli della band chiaramente usciti da un romanzo degli anni 40, sono andati talmente oltre da riuscire a vendere 2000 biglietti al loro concerto di debutto, nel 2005, beccarsi una nomina al Mercury Prize e fare un po’ di classifica, nonostante sempre quel nome.
Da Trinidad a Londra per scrivere della musica americana tipicamente bianca e rock, e infilarla dentro il quinto album, Outsiders, con quel piglio adolescenziale e di leggerezza che è perfetto per una scampagnata tra amici, chitarre, risate e una bellissima giornata di sole con il vento tra i capelli; un disco da ascoltare quando avete la giornata storta.
Ciò che fa sorridere dei ragazzi di Londra è che suonano molto più americani di Ron Gallo, con il suo cappellino a visiera e i ricci capelli di Philadelphia inscena il suo ballo dinoccolato tipico di uno spilungone (tipo “io ballo da sola”), durante il suo personale Stardust Birthday Party, per celebrare l’amore a ritmo di chitarre stoppate e bassi a plettrate sempre verso giù.
Nonostante il disco sia già stato pubblicato, credo stia ancora giocando con tutti quegli aggeggi per rendere la sua voce più spettrale possibile, così il suo amico John Coltrane, a cui dedica un brano, non si potrà sentire troppo solo. Se dovessi fare ubriacare tutti e mettere su un disco, userei questo di Ron Gallo con delle luci rosse d’accompagnamento per fare allineare i pianeti con i suoi; è lisergico al punto giusto da non essere ridondante.
Probabilmente, dopo la sbronza e il conseguente lancio di rotoli di carta igienica, la luce rossa la lascerei accesa e infilerei la testa nello casse dello stereo, alzando i bassi fino al limite per far vibrare i pavimenti con Blerum Blerum dei Rinunci a Satana, che a fine registrazione delle parti strumentali hanno deciso di non mettere la voce quando si sono resi conto che il disco suonasse già perfetto così.
Un bel viaggio da Milano alle americhe ancora più polverose dei fratelli Stodart, per rockeggiare un bel po’ alla vecchia maniera e mandare a quel paese la nonna che da sotto batte con la scopa. Va bene, non sono solo grossissime zanzare di 100 chili che cantano dentro gli amplificatori dei neo battezzati, se tua nonna si arrabbia tanto puoi farle comunque sentire un po’ di loro brani di post rock e blues; pensa se arrivi verso la fine del disco e le dici che ci sono anche dei pezzi che ricordano un po’ il progressive della PFM o dei New Trolls, ti cucinerà doppia razione di polpette.
di Renato Failla , To Tape (Radio CRT)