Il 23 Luglio, per la seconda volta di fila, i King Crimson si sono esibiti all’Auditorium Parco della Musica, precisamente sul palco esterno dell’Aula Cavea. Uncertain Times è il nome del tour europeo, e sebbene sia anche una definizione abbastanza azzeccata di alcuni aspetti di quest’epoca, il gruppo britannico si è dimostrato una certezza. In tutti i sensi.
Chi non è mai stato a un concerto all’Aula Cavea dovrebbe farci un salto il prima possibile. È ben diverso rispetto ai soliti parterre da battaglia ai quali possiamo essere felicemente abituati. Prima di tutto si sta seduti, che ogni tanto non guasta, e in secondo luogo si ha la possibilità di usufruire di un’acustica d’eccellenza data, oltre che da un’impianto di qualità, dalle caratteristiche architettoniche: ci ha pensato Renzo Piano a non farci venire l’acufene, e non aggiungo altro.
Se poi sul palco ci salgono i King Crimson abbiamo tutti gli ingredienti di una ricetta squisita.
Un annuncio molto “polite” ci ha invitati a spegnere qualsivoglia dispositivo per immortalare foto e video, con lo scopo di godere di un’esperienza più immersiva. Ma in contrasto alla gentilezza di tale invito, hanno messo subito in chiaro la questione montando tre batterie in prima fila.
Durante le due ore e mezza d’esibizione, divise in due atti intervallati da venti minuti di pausa, sei bacchette hanno dialogato tra loro scambiandosi frasi, alternandosi, completandosi e sovrapponendosi: c’era il brizzolato Pat Mastelotto, che col suo stile elegante ha curato anche le varie percussioni, Jeremy Stacey, diviso tra tastiera e batteria, e Gavin Harrison, che si è occupato pure di pad elettronici.
Dietro di loro c’erano i sassofoni e il flauto traverso di Mel Collins, il basso e il chapman stick di Tony Levin, le tastiere di Bill Reflin, la chitarra e la voce di Jakko Jakszyk, e ovviamente Robert Fripp, che suonava da seduto, come se niente fosse, e fissava i suoi compagni senza battere ciglio; forse si segnava mentalmente ogni eventuale improbabile imprecisione per poi fustigarli nel backstage… ma, scherzi a parte, abbiamo avuto modo di assistere all’esibizione di otto esperti che ci hanno proposto un viaggio nel mondo e nella storia dei King Crimson.
Ma non sono stati jukebox viventi.
I brani, compresi quelli de In The Court Of The Crimson King (1969), sono stati rielaborati sotto alcuni aspetti. Ovviamente la presenza di tre batterie ha contribuito significativamente a questi cambiamenti. Altre differenze si sono percepite negli arrangiamenti e nelle sonorità.
Ma si può parlare fino in fondo d’evoluzione?
Certamente parliamo di un progetto di circa cinquant’anni che ha coinvolto una ventina di musicisti, che ha sfornato “soltanto” 13 album in studio (risparmio tutte le raccolte e i live), e che semplicemente ha fatto la storia del suo genere (e non solo). Il Progressive infatti ha parecchie sfumature. Chi conosce i King saprà che hanno spaziato poliedricamente dal jazz alla classica, dal rock psichedelico alla new wave, dall’heavy metal alla folk, e che non hanno peccato di uno spirito sperimentale pur mantenendo un’identità salda, riconoscibile e al contempo camaleontica. Un camaleonte che potrà pure cambiare momentaneamente l’aspetto della sua pelle ma che rimane sempre lo stesso animale. Ciò da alcuni punti di vista è un bene, e per questo il maestoso Re Cremisi si è meritato un inchino sentito… ma per lo stesso motivo devo ammettere che non me la sono sentita di prostrarmi: qualche riflessione mi ha fatto fermare a metà.
Forse alcuni punti di forza, sottolineati durante l’esibizione, potrebbero avere un’altra faccia.
Abbiamo a che fare con un genere che, per come lo fanno i King Crimson, presuppone capacità tecniche superlative e un certo gusto che, volente o nolente, appartiene a uno stile che si fregia proprio di queste capacità: ma qual è la soglia tra un apprezzabile virtuosismo e la masturbazione?
Lunghe digressioni, fiumi di note, arzigugolati scambi tra le tre batterie e folli strutture, possono assolutamente piacere e hanno validissime ragioni di essere proposte; ma probabilmente ci sono stati momenti in cui si sono avvicinati pericolosamente a questo confine, per non dire che forse, a tratti, potrebbero anche averlo superato. Loro se lo possono senz’altro permettere e assistervi può essere educativo per un avvezzo ascoltatore o per un musicista, ma avvicinarsi a quel limite, o superarlo, può rischiare di andare a intaccare un altro rispettabilissimo aspetto della tecnica: la capacità di sintesi.
E questo sarebbe un vero peccato.
Perché sintetizzare non significa scarnificare, ma spogliare di artefici riuscendo a trasmettere ciò che si vuole in maniera diretta ed efficace. Una sintesi fatta a regola d’arte presuppone una padronanza magistrale, dunque non è riduttiva e banale, e non sporca assolutamente il prestigio. I King Crimson ritengo ne siano capaci molto più di quello che ci hanno concesso e, se soltanto lo dimostrassero ulteriormente, potrebbero derivarne forse stupefacenti innovazioni rivoluzionarie.
Insomma, in tempi incerti viene naturale rifuggere tra le braccia di valori che in passato hanno funzionato e che continuano a funzionare. Viene istintivo inchinarsi al Re Cremisi fino a guardarsi le scarpe, perché si merita indubbiamente tutto il nostro rispetto, la nostra stima e la nostra gratitudine per avere arricchito la musica mondiale e avervi inciso il suo tratto indelebile.
Ma forse bisogna fare lo sforzo di rimanere a metà e continuare, nonostante i culti, a cercare di guardare sempre in avanti. Ai tempi i King Crimson l’hanno fatto, in parte lo continuano pure a fare, e per questo sono diventati quello che sono.
Ciò, al di là di ogni soggettiva riflessione, mi ha portato al mezzo inchino.
Tu che avresti fatto?