In occasione dell’inizio del suo nuovo tour, abbiamo fatto quattro chiacchiere con Willie Peyote
Si avvicina il giorno della prima dell’ “Ostensione della sindrome – Ultima cena tour”, che ti vedrà impegnato in ben otto date in tutta Italia, con partenza il 23 novembre all’ Estragon di Bologna. Insieme a te la Sabauda Orchestra Precaria, arricchita da una sezione di fiati. Noi di CSI magazine ci saremo, immagino che dobbiamo aspettarci uno spettacolo potentissimo ed una gran festa.
Beh si, sarà una bella festa. Sono gli ultimi concerti, poi per un po’ non suoneremo più e abbiamo tutta l’orchestra al completo. Suoniamo per l’ultima volta dei pezzi che son stati piuttosto importanti. È stato un anno impegnativo e soddisfacente e quindi vogliamo che sia una festa con tutti.
A proposito, il 2018 è stato l’anno di uscita del tuo nuovo singolo, di un lungo tour con svariati sold-out ma anche di un’importante collaborazione, quella coi Subsonica, peraltro nativi di Torino come te. Mi racconti che esperienza è stata e come è nata?
Per me è stata la realizzazione di un sogno, anche perché quando ho iniziato a suonare ascoltavo i Subsonica ed erano un mio punto di riferimento. Era uno dei sogni che covavo, perché torinesi ma non solo. Sono stati un gruppo importante per la musica italiana e assolutamente unico. È nata così: semplicemente con Max e Samuel ci conoscevamo già da un po’ e mi hanno chiesto di fare un pezzo insieme, visto che stavano preparando il disco nuovo. Io non potevo che rispondere di si!
Parliamo di contenuti. La libertà d’espressione è il tema dominante del tuo ultimo concept album, ‘Sindrome di Toret’. Viviamo nell’epoca della schiavitù da social network, pensi che prima o poi ci stancheremo e torneremo indietro o diventeremo sempre più “mostri”? Qual’è il tuo rapporto con i social?
Mah, ho un rapporto abbastanza conflittuale, come con tutto. Non nascondo che come tutti vengo assorbito dallo “scrollare” all’infinito, ma è anche un modo per spegnere il cervello. Non lo so, non sono un sociologo, ma secondo me non c’è grande reversibilità. Credo che o ci sarà un totale breakdown oppure che si andrà avanti così, tutto cambierà ulteriormente e avremo nuovi devices. Però fondamentalmente ormai fanno parte della nostra vita e non saremmo più in grado di farne a meno.
“Costretti a esprimere sempre un’opinione / non fai in tempo ad averne una”. Parli degli eccessi della libertà d’espressione e del progresso, poi in ‘Giusto la metà di me’, un’inversione di tendenza, una difficoltà a mostrarsi completamente:“Qui dentro ogni frase è per sempre / le parole diventano fumo”, “Per questo mostro la metà di me. / Vedi solo la metà di me”. È un’analisi introspettiva?
Beh si, assolutamente, in ‘Giusto la metà di me’ parlo di me (ride ironico, ndr), della metà, dei “pezzettini” di me che mostro agli altri per insicurezza.
Il disco affronta il tema della comunicazione e poi appunto della libertà d’espressione e delle sue contraddizioni. Ad esempio, i pezzi d’amore parlano di comunicazione all’interno di una storia, quindi tutto affronta questo tema. Per lavoro parlo e scrivo ma questo non vuol dire che poi nei rapporti umani sia sempre in grado di dire esattamente quello che vorrei perché intervengono un sacco di dinamiche emotive che vanno “oltre”.
Nel tuo lavoro precedente il brano ‘Io non sono razzista ma..’ non è rimasto indifferente alla critica e in alcuni casi ha suscitato sdegno e commenti fuorvianti. Hai mai ricevuto minacce per qualcosa che hai scritto?
Purtroppo no, non mi è mai successo. Non è ancora accaduto, ma non mi stupirebbe se succedesse. Non dico che me la vado a cercare, ma prendere posizione ha ovviamente dei lati negativi e uno deve assumersi i rischi.
A proposito di “effetto sbagliato”, che effetto ti fa quando ti dicono che assomigli a Toninelli?
(ride, ndr) Bene ma non benissimo. Ho tagliato anche i capelli, dai, non mi sembro più così simile, dovremmo essere salvi!
Curiosità da fan, prima ancora che intervistatrice: Quali sono gli album musicali che hai più “consumato” e che più ti hanno influenzato nella vita?
Sicuramente ‘Turbe giovanili’ di Fabri Fibra, ‘Mi fist’ dei Club Dogo, ‘Ready to die’ di Biggie Smalls. e ‘Blackout!’ di Redman e Method Man per stare nel rap.
E poi ‘Demon Days’ dei Gorillaz, ‘Whatever people say I am, that’s what I am not’ degli Arctic Monkeys, ‘Corto circuito’ dei 99 Posse, ‘Subsonica’ e ‘Microchip emozionale’ dei Subsonica, ‘Nevermind’ dei Nirvana.. insomma, ce ne sono stati un po’ che mi hanno influenzato.
Ultima domanda… ansiogena, ma come ben sai per gli ascoltatori accaniti il tempo che passa tra un album e un altro può sembrare infinito. Ci anticipi qualcosa sui tuoi progetti futuri? Come vivi i periodi di transizione tra un lavoro e un altro?
Non sempre bene, anche perché questo mondo e questa velocità di consumo della musica ti mettono fretta. Al momento non sappiamo neanche noi come sarà il disco quindi ora non saremmo in grado di spiegarlo agli altri. Da quando è uscito l’album ad oggi non abbiamo mai smesso di suonare, quindi tutti abbiamo la necessità di staccare un po’ la spina e di fare anche altre cose. Stiamo facendo delle valutazioni, stiamo cercando di comprendere verso che direzione andare, dobbiamo prima capire e poi saremo in grado di andare in studio: ci metteremo ancora un po’, insomma.
Qualche giorno dopo l’intervista, eccoci alla prima sold-out de ‘L’ostensione della sindrome tour’: l’ Estragon club strapieno attende il concerto carico di aspettative, l’età media dei presenti è piuttosto bassa e tutti sono pronti a saltare.
Alle 22 puntuali, come annunciato, sale sul palco la Sabauda Orchestra Precaria al completo e si capisce già dalle prime note che la qualità del live sarà condizionata positivamente dalla preziosa performance di musicisti di livello e dalla presenza di trombe, chitarre, fiati, batteria, percussioni.
La band introduce Willie che entra con entusiasmo, sbalordito da quanta gente si trova davanti: è l’inizio di un live memorabile.
Partenza funky e poi già subito ‘Metti che domani’, che incendia il pubblico. “Ci leviamo dalle palle un po’ di pezzi d’amore” dice, ed in serie si susseguono ‘Willie Pooh’, con un finale inedito, e ‘Le chiavi in borsa’.
Tra un pezzo e l’altro presenta gli elementi della band, come il batterista Dario Panza, Frank Sativa (produttore dell’ultimo disco insieme a Kavah), il bassista Luca Romeo ed il super chitarrista Danny Bronzini, oltre che tutti i fiati.
Hip hop, funk, dance, rock, rime, ritornelli che entrano subito in testa, tutto si mescola alla perfezione, è la sindrome di ‘Toret’. Ad un certo punto Willie ci dice con tono più serio: “E ora vi racconto un po’ delle mie paranoie”. È l’introduzione di ‘Giusto la metà di me’, lo spartiacque, uno dei momenti più alti della serata, un colpo al cuore.
Rapita dal coinvolgimento dell’artista nel recitarci quelle strofe così intime mi immedesimo, emozionandomi. Sul finale del pezzo, Willie sparisce e l’Orchestra diventa protagonista di un jazz a dir poco meraviglioso.
Degni di nota anche ‘Peyote 451, l’eccezione’, uno dei suoi brani più “cattivi” ed energici e ‘C’hai ragione tu’, con un basso super ritmato, conclusa agganciando una strofa di ‘A me me piace ‘o blues’ di Pino Daniele, a dimostrazione dell’ampia conoscenza musicale e dei frequenti riferimenti ad altri artisti.
Un ironico Willie ci racconta a modo suo di essere affezionato a Bologna, citando una serie di slang e parole tipicamente bolognesi come “Merda vez!” o questa parola buffa che è il “rusco” e dà appuntamento al Pratello dove va spesso a bere.
Non mancano neanche brani del primo album, ‘Tua madre’, brano composto con Zibba durante uno degli episodi di Kahbum, ‘Io non sono razzista ma’, dedicata con tanto affetto al suo “amato” Salvini, ma anche ‘I cani’ durante la quale battezza il pubblico col microfono e ‘C’era una vodka’ con tanto di fiamme che partono dalla parte anteriore del palco.
Willie e Orchestra si fermano salutando ed uscendo di scena. Inizia un coro da stadio che chiede il bis e non passano neanche cinque minuti che si ricomincia a saltare. Il pubblico è in delirio, le ultime tre canzoni saranno ‘Ottima scusa’, ‘Vendesi’ e ‘Allora ciao’, giusto per concludere in bellezza.
Un concerto che rifiuta “etichette”, fatica ad essere raccontato ed è tutto da vivere. Ci aveva promesso una grande festa, e così è stato.