Les âmes musicales profondes de Giacomo, Flavio et Francesco se fondent dans une électronique fine faite de sons chauds et enveloppants, de cordes, de guitares spatiales et de romantisme.
C’est une expérience immersive dans le son captivant d’Inude, une collection de chansons charmantes construites autour de guitares floues et de synthés chauds enveloppés de mélodies mélancoliques.
Queste le parole che riassumo la musica degli Inude sul sito del prestigioso festival di Montreux, al quale la band pugliese ha partecipato lo scorso luglio. Mi sembra che non ci possa essere un modo migliore per descriverli.
Ho incontrato gli Inude al FRAC [qui il foto report del festival, ndr] e ho fatto insieme a loro questa piacevolissima chiacchierata.
Prima di tutto vorrei che vi raccontaste un po’ ai nostri lettori, come band e anche singolarmente.
Giacomo: Il progetto Inude è nato nel 2015, a Nardò, in provincia di Lecce, che è il posto da dove proveniamo tutti. Inizialmente eravamo io e Flavio. Francesco in realtà c’è sempre stato, ma è entrato nel progetto poco dopo.
Tutti e tre siamo prima di tutto amici e suoniamo insieme da 16 anni.
Ognuno di noi ha avuto le sue esperienze con altre realtà e musicisti (cosa che capita ancora tutt’oggi). Ma poi tra il 2015 e il 2016 ci siamo ritrovati e abbiamo deciso di dare vita agli Inude.
Le musiche, soprattutto, ma spesso anche i testi, li scriviamo tutti insieme. Quindi in fase di registrazione il lavoro è soprattutto un lavoro fatto in comune. Io sono Giacomo Greco e durante i live suono la chitarra e i synth.
Francesco: Io sono Francesco Bove e mi occupo della scrittura e composizione dei brani, ma durante i live non appaio sul palco. Curo i suoni dalla parte del mixer.
Un ruolo molto importante anche questo, forse ancor di più visto il tipo di musica che realizzate.
Francesco: Sì, penso che la musica vada anche in qualche modo “coccolata” e io mi occupo di coccolare i suoni durante i live. Curo quello che viene fuori dal palco, cercando di fare in modo che si possa percepire quello che vorremmo che la gente sentisse. Durante i live ci accompagna anche un batterista, che è il terzo elemento sul palco.
Flavio: Io sono Flavio Paglialunga, e oltre a scrivere insieme a loro i testi e le musiche, suono le tastiere e canto.
Qual è il significato del nome Inude? Nome inventato, immagino.
Flavio: In realtà volevamo chiamarci “Nude”, per mettere in risalto l’idea di volerci, con la nostra musica, mettere a nudo. Poi abbiamo scoperto che c’era già un gruppo americano, che fa hip hop, con questo nome e abbiamo scartato questa ipotesi. Anche perché non volevamo chiamarci come nessun altro. Abbiamo poi deciso di metterci davanti un “I”, all’inizio anche per rimarcare l’aspetto più intimo del progetto. Ma ci piaceva soprattutto l’idea che fosse unico e che non significasse nulla, benché il significato lo abbia alle spalle.
Siete stati di recente ospiti del famosissimo festival jazz di Montreux. Cosa vi ha portato fino a lì?
Francesco: Abbiamo partecipato ad un evento a Roma, all’interno dell’Istituto Svizzero, legato al festival di Montreux. Lì ci ha visti e sentiti la loro direttrice artistica, Stephanie-Aloysia Moretti, che ci ha voluti all’interno del programma del festival. Per fortuna esiste ancora qualcuno che cerca e ascolta.
Bellissimo, sì! E com’è stata l’esperienza in un contesto internazionale così storico, e sicuramente diverso dai contesti “indipendenti” italiani?
Flavio: È stata un’esperienza davvero differente, non solo dai festival italiani, ma anche da tutti i festival europei ai quali abbiamo partecipato. Probabilmente una delle esperienze più belle che abbiamo fatto come Inude.
Ho visto dai vostri social che avete partecipato anche ad una lunga jam session.
Flavio: La jam session è, in realtà, parte integrante del festival. L’organizzazione ci tiene che vi partecipino tutti i musicisti, da quelli più conosciuti a quelli pressoché sconosciuti. La seconda sera, infatti, abbiamo suonato con i musicisti di John Legend… In realtà senza saperlo, l’abbiamo scoperto solo dopo…
Le jam session iniziano intorno alle 23:30 e finiscono all’alba, ma anche se sei stanco, e verso le sei del mattino non ce la fai più, sei tu stesso che vuoi assolutamente partecipare. Proprio perché ti trattano davvero bene e perchè coccolano in egual modo tutti i partecipanti, dal più famoso a quello meno noto. Se sei lì, per loro vali e ti trattano come si deve.
Francesco: Il festival di Montreux nasce proprio con l’intento di far rimanere lì gli artisti. Infatti ci hanno fatto andare un giorno prima e rimanere anche il giorno dopo, così abbiamo potuto goderci anche tanti live, come quello di Bjork, che ha cantato con l’orchestra di Losanna, con una cinquantina di elementi, soprattutto fiati.
Bello sentire che, anche dal punto di vista musicale, in un paese ritenuto “freddo” come la Svizzera ci sia invece un clima così amichevole.
Giacomo: Assolutamente sì, anzi è stato esattamente il contrario di quello che si potrebbe pensare. E per fortuna lo è anche in molti ambiti. La Svizzera è un paese avanti anni luce rispetto all’Italia, non solo dal punto di vista dell’organizzazione. Hanno un grandissimo rispetto dell’arte e della cultura in genere.
Confermo anche io, sì. Conosco molto bene la città di Basilea, un gioiellino di arte e cultura che davvero non ci si aspetta. Veniamo ora al vostro ultimo EP, “Primavera”. L’ascolto del disco e la visione del video mi hanno fatto venire in mente una serie di cose. Tra queste, ad esempio, l’Hanami giapponese, ossia la contemplazione della fioritura degli alberi di ciliegio, momento sacro per la cultura nipponica.
Le atmosfere suggeritemi dall’ascolto del disco mi hanno fatto venire in mente una forte necessità di comunicare la grande importanza della cura della bellezza. Le melodie di “Primavera” richiamo tanto una urgente necessità di venire di nuovo alla luce, qaunto una necessità di leggerezza.
Nel video di There Was No Way Out, nel quale i fiori si liberano dal gelo di un rigido inverno, la loro delicatezza e la brevità della loro esistenza diventano simbolo perfetto della bellezza, della rinascita, ma anche della fragilità.
Giacomo: Hai colto perfettamente l’idea alla base del disco. Quando la situazione generale è in qualche modo migliorata, abbiamo sentito fortissima l’urgenza di venire fuori con alcuni dei brani che avevamo composto durante il periodo buio.
Abbiamo deciso di pubblicare il disco sotto forma di EP, e non di album, proprio per questa urgenza che avevamo di comunicare il nostro stato d’animo in quel momento.
La genesi del disco è avvenuta durante il lockdown, durante quel buio dal quale, appunto, anche la vostra musica vuole, e riesce, a liberarsi.
Giacomo: Sì, il disco è stato scritto a distanza. La produzione poi abbiamo, per fortuna, potuto curarla tutti insieme in presenza, perché intanto la situazione era più aperta. La forma breve del disco non è stata un’esigenza di tipo discografico, ma proprio una nostra urgenza, dettata dal lungo periodo di fermo che abbiamo avuto.
Ho notato sin da subito che i vostri videoclip sono realizzati tutti da una stessa “mano”. La predilezione dei piani ravvicinati, l’ossessione (direi quasi) per i particolari, la perfetta simbiosi tra musica e immagini rivelano qualcosa che penso vada al di là della semplice collaborazione. Ci volete parlare un po’ del collettivo Acquasintetica che, appunto, realizza i vostri videclip?
Giacomo: Sì, esatto. Acquasintetica sono Gianvito Cofano e Alberto Mocellin, che abbiamo conosciuto già nel 2015. Gianvito è di Fasano, Alberto è veneto, anche se il primo vive a Milano, mentre il secondo si è stabilito da qualche anno in Puglia. Si sono letteralmente scambiati i luoghi… Con loro è nato un bellissimo rapporto di amicizia e questo ci ha permesso di trovare una sintonia che va al di là degli aspetti lavorativi.
Flavio: Ormai, con loro, non c’è nemmeno più bisogno di spiegarle alcune cose.
Giacomo: Sì, l’ideazione dei video è sempre un lavoro che facciamo in comune, in uno scambio continuo di opinioni e idee. Preferiamo una collaborazione di questo tipo perché, prima di tutto, in questo modo si crea una vera e propria empatia.
L’idea del video “There Was No Way Out”, a cui facevo cenno poco fa, da chi è partita?
Flavio: Da Alberto, l’idea originale è stata di Alberto Mocellin. Avevamo pochissimo tempo e un piccolissimo budget, e lui ha avuto l’illuminazione giusta.
Tornando alla musica, gli accostamenti più comuni che ho trovato leggendo alcune recensioni ai vostri dischi sono soprattutto i nomi di Radiohead e Moderat…
Flavio: Guarda non vorrei risultare offensivo, ma a volte capita che ci siano dietro, in realtà, pochi riferimenti. Perciò i nomi che citano sono, alla fine, sempre gli stessi.
Francesco: C’è anche da dire che spesso nelle recensioni non leggiamo pareri sulla musica, ma sempre e solo accostamenti ad altri dischi.
Allora adesso è il mio turno… Ma io, invece, sono rimasta stupita dalla vostra “sintonia” con gli Zola Blood. In particolare il vostro primo EP, “Love is in the eyes of the animals”, uscito nel 2016, è la testimonianza che avete fatto un anno prima quello che hanno fatto loro nel 2017 con il primo disco, “Infinite Games”.
Trovo impressionante la vicinanza con la band inglese, nei suoni, nell’eleganza dell’esecuzione, nella profondità delle melodie. Loro, tra l’altro, in Italia, hanno suonato proprio solo in Puglia, al Giovinazzo Rock Festival. E, sinceramente, mi fa davvero piacere aver scoperto, con voi, che anche dalle nostre parti sia nato qualcosa del genere.
Flavio: Certo, il festival lo conosciamo, ma gli Zola Blood, oddio no, non li abbiamo mai sentiti. Sicuramente li ascolteremo, la cosa ci incuriosisce molto.
Nel vostro percorso ci sono state anche esperienze di sonorizzazioni di immagini. Di cosa si è trattato?
Giacomo: Abbiamo realizzato un lavoro per un workshop che si è tenuto al MAT di Terlizzi [bellissima realtà in provincia di Bari n.d.r], insieme a Corrado Nuccini [Giardini di Mirò] e Stefano Pilia [Massimo Volume, Afterhours].
Flavio:
Per tre giorni abbiamo lavorato sulle immagini di un film muto ispirato all’Inferno di Dante. E l’ultimo giorno abbiamo portato i risultati live.
È stata un’esperienza davvero costruttiva, un lavoro intenso che abbiamo fatto tutti insieme e poi, al terzo giorno, riportato direttamente live sul palco, insieme a Stefano.
Giacomo: Con il MAT abbiamo lavorato anche ad un progetto di archivio sonoro, che non aveva in quel caso nulla a che fare con le immagini, ma che è stato molto interessante.
Flavio: Sì, loro hanno creato una banca dati di suoni proveniente dal territorio pugliese, dal fabbro a lavoro ai rumori delle natura, e attingendo a quella banca dati abbiamo creato un brano. E dal progetto, a cui hanno partecipato diversi altri musicisti, è uscito poi un disco in vinile.
Tornando alle sonorizzazioni, invece, abbiamo lavorato anche ad un progetto che ha previsto la realizzazione delle musiche di un’opera video ludica, che ha avuto distribuzione in alcuni musei.
Una sorta di videogioco che funzionava su alcune app e piattaforme. Si trattava di pezzi tutti strumentali in quel caso.
Ho letto che i vostri live sono molto più “forti” rispetto alle atmosfere eteree dei dischi. La produzione estremamente curata in fase di registrazione lascia il passo alla voglia di un impatto forte. Cosa pensano gli Inude un momento prima di chiudersi in studio e cosa un momento prima di salire sul palco?
Giacomo: Bella domanda! Lavorare in studio è come dipingere un quadro. Si tratta di un lavoro meticoloso, che richiede molto tempo, e anche tutto un lavoro di revisione. A meno che non si tratti di realizzare un prodotto come Primavera che, rispetto ai nostri lavori in studio, è molto più istintivo. In studio la cura dei dettagli diventa fondamentale (e in parte lo è stata anche in quest’ultimo disco).
Il live è invece anche un modo per sfogare una certa fisicità, di cui comunque sentiamo l’urgenza.
Anche se, naturalmente, anche durante i live, almeno quando le condizioni lo permettono al meglio, curiamo moltissimo il lavoro sui particolari tecnici. Soprattutto grazie al lavoro di Francesco.
Sul palco poi, puoi finalmente sfogare l’energia che hai dentro, ed è anche un modo per mettersi dal lato di chi assiste al concerto.
La mia idea è sempre quella di voler dare alla gente quanta più possibile energia fisica. In modo che possa anche restituirtela indietro.
Io stesso, se assisto ad un live e sento che il disco è riprodotto esattamente anche sul palco, sinceramente un po’ mi annoio. Preferisco sentire suoni meno perfetti, meno tecnicismi, così anche noi stessi ci annoieremmo a rifare esattamente quello che facciamo in studio. Cerchiamo ovviamente di mantenere la stessa identità sonora, ma sul palco esasperiamo anche alcune parti di alcune canzoni, “spingendole” di più.
Flavio: Sì, sì, ci annoiamo facilmente! In noi in realtà coesistono due anime. In studio viene fuori la nostra anima più pacata e riflessiva. Dal vivo quella più “forte”. Altro discorso è quando i live si svolgono in ambienti diversi, tipo i teatri, che abbiamo sperimentato molto poco. Ma in realtà a noi piacerebbe molto suonare anche in quel tipo di situazioni, magari con una bella sezione d’archi. Chissà…
di Loredana Ciliberto