Ho conosciuto Cecilia Sanchietti nel 2007, quando lavoravamo per la stessa Organizzazione Non Governativa, poi le nostre strade si sono divise. Lei ad un certo punto ha mollato il lavoro per dedicarsi alla musica.
L’ho rivista qualche sera fa alla Casa Del Jazz di Roma, in un live dove presentava il suo ultimo lavoro.
Prima di parlare del tuo ultimo disco, mi racconti un po’ com’è andata dopo che ci siamo persi di vista? Sono curioso di capire come hai vissuto quello che ho sempre considerato il “mollo tutto e mi do alla musica”. È andata così? Quali sono le difficoltà che hai incontrato?
È stato proprio così! Anche se in realtà il “mollo tutto” è durato parecchio tempo e anche il momento di assestamento. Ho lasciato il mio precedente lavoro nel momento in cui gli impegni musicali erano ormai inconciliabili con la vita che facevo e quando la mia passione e volontà erano troppo forti rispetto al tempo che avevo a disposizione per coltivarli.
Con la musica e in generale l’arte è cosi: se la vuoi devi viverla pienamente e farla crescere. Dargli spazio, aria.
Se ti dovessi dire la verità, non credo di aver mai avuto veramente la consapevolezza di voler fare la musicista. È stata una parte di me sempre presente, ma è venuta fuori lentamente.
Me ne sono accorta quando ormai ero diventata una professionista. Per tante paure e sovrastrutture familiari e sociali stentava a venire fuori e poi ha avuto la meglio!
Il passaggio è stato comunque molto difficile, sia da un punto di vista emotivo, perché io amavo profondamente il mio lavoro precedente e la “Cecilia di prima”, sia da un punto di vista economico.
Non ho fatto questa scelta quando potevo permettermelo economicamente, ma quando ho sentito fosse il momento giusto di farlo e, si sa, la musica in Italia non paga.
All’inizio alternavo piccoli lavori in altri campi a concerti e lezioni con allievi privati. La mia settimana era una scacchiera!
Lentamente la mia parte didattica e concertistica sono cresciute ed ora rappresentano la totalità della mia vita, ma non è stato facile.
Bisogna crederci veramente, avere tanta resilienza, essere un pò pazzi e visionari. Abbandonare il “buon senso”, non ascoltare la maggior parte delle persone che danno consigli strutturati sul tuo futuro.
Non ragionare con una logica di puro rendiconto o causa effetto. Quello che appaga di queste scelte è il sentirsi pienamente rappresentati in quello che si è, ma il percorso per arrivarci è molto contorto, non lineare, spesso incomprensibile: una “terza via”.
“La terza via” è il secondo album da leader di Cecilia Sanchietti, dove oltre a suonare la batteria hai scritto anche la maggior parte delle composizioni. Come nasce il progetto? E alla fine è venuto fuori come te lo aspettavi?
Il progetto è nato prima di tutto da un punto di vista “emotivo” e di pensiero. Avevo un forte desiderio di rappresentare il mio percorso umano e musicale precedente, parlare delle difficoltà e gioie che si incontrano in questo cammino e del coraggio che ci vuole per percorrerlo, così come in generale nel percorrere la vita pienamente.
L’album viene fuori anche da un anno particolarmente negativo dove ho dovuto scontrarmi con scelte difficili e persone che non hanno avuto la forza di farle.
Così è uscito…dovevo parlare di questo e farlo con la musica, dare un messaggio sull’importanza di guardarsi sempre dentro ed essere autentici con i propri desideri.
Ho chiamato i miei musicisti e gli ho proposto le prime composizioni, il resto è venuto da sè.
Sul “come me l’aspettavo” io ho sempre una visione controversa. All’inizio ho in mente soprattutto un suono e delle atmosfere che voglio realizzare e in effetti così è stato. I musicisti e gli strumenti che ho scelto e i brani scritti sono perfettamente in linea con il mood che volevo creare.
In realtà mi accorgo solo dopo che quello che emerge è effettivamente quello che volevo. L’aspetto fondamentale è “dire qualcosa”, parlare alla gente, raccontare delle storie.
Non mi piace partire da categorie per sentirmi rassicurata, mi piace lasciar fluire quello che arriva, soprattutto dall’interplay. E quello che è venuto fuori da questo disco è per me bellissimo e mi rappresenta pienamente.
Quindi sì, è come me l’aspettavo!
Adesso che il disco è chiuso e hai concluso con successo anche il crowdfunding su music raiser, ripensando a tutto il lavoro che c’è voluto per realizzare questo progetto qual è la tua soddisfazione più grande?
La più grande soddisfazione è vedere ora diventata realtà un’idea, un desiderio, qualcosa che avevo in mente solo io.
È un aspetto incredibile e affascinante e in qualche modo secondo me la vera pazzia della creazione: convincere te stesso e gli altri a far diventare reale quello che è immaginazione.
Vedere qualcosa che non esiste, dargli forma e poi realizzare il progetto nella pratica. Non è detto che questo funzioni sempre e quando accade è il vero potere e fascino dell’arte.
Durante la costruzione di un progetto ci sono tanti momenti in cui devi scegliere: un brano, un musicista, un luogo, un partner promozionale e non sai mai se sarà l’opzione giusta. Ma la fai uguale, seguendo istinto, intuizione, empatia.
In realtà anche l’istinto, così come la fortuna, non esistono: sono probabilmente il frutto di tante esperienze. Quando quello che accade alla fine è qualcosa di bello, qualcosa che arriva alle persone e realizza insieme anche te stesso, come in questo album, allora è piena soddisfazione.
La seconda soddisfazione importante è quella di aver tenuto in piedi un progetto che va ormai avanti dal 2016 concretizzatosi ora in un Album, con musicisti del calibro del mio trio, con il loro appoggio e dedizione. Non è mai facile in generale avere un ruolo di leadership e soprattutto far sì che ognuno suoni con voglia e non solo perché parte del suo lavoro.
Farlo con chi è già un nome mantenendo quell’elemento di “democrazia”, come dice Ron Savage nelle note di copertina, è un terno al lotto ma è l’unico modo per far sentire tutti parte di un progetto e dare il meglio di se stessi.
Per me un grande grazie va sempre a loro anche per questo.
Ascoltando il tuo lavoro come compositrice mi pare di capire che non hai per nulla abbandonato il tuo impegno civile, soprattutto a favore dell’uguaglianza di genere e dei diritti delle donne. Mi ha colpito molto ad esempio il brano “Not (in) my name” che hai scritto pensando alla storia di una combattente curda. Puoi raccontarci la sua storia?
Nel mio piccolo cerco di fare il possibile, ma potrei fare molto di più. Tengo molto al discorso che ruota intorno ai diritti delle donne, perché davvero per noi è tutto molto difficile.
Non sono giochi di parole o solite espressioni femministe ma fatti reali legati purtroppo alla difficoltà che incontriamo oggi nel vederci riconosciuto il valore che meritiamo.
“Not (in) my name” è un brano che ho voluto dedicare ad Asia Ramazan Antar, combattente curda contro lo Stato Islamico, morta in combattimento nel 2016.
La sua storia mi colpì molto perché, nonostante il suo valore e la sua scelta, i media l’hanno ricordata non con il suo vero nome ma come la “Jolie” curda per la sua grande somiglianza con Angelina Jolie.
Privandola del suo nome, le è stato negato in qualche modo il valore e il ricordo del suo gesto e del suo coraggio ed è stata esclusivamente ricordata per la bellezza esteriore. Oltre ad essere un omaggio a lei e un grido a “Non è il mio nome – Non sono io”, il brano si posiziona contro tutte le guerre, ricordando una campagna uscita tempo fa denominata appunto “Not in my name”. Argomento a cui tengo moltissimo, sempre per i miei passati in ambito di cooperazione.
Parliamo di batteriste. Pensando al mondo del pop/rock mi vengono in mente tantissime batteriste come ad esempio Maureen Tucker dei Velvet Underground, Sandy West che ha co fondato l’hard rock band The Runaways, Meg White dei White Stripes e ovviamente Cindy Blackman che oltre ad essere “famosa” per la sua collaborazione con Lenny Kravitz (sia in studio sia nei live) ha un curriculum jazz di tutto rispetto… Insomma batteriste di un certo spessore, che oltre a picchiare duro dietro la batteria hanno contribuito alla crescita dell’identità dei rispettivi gruppi, vincendo riconoscimenti, e soprattutto vendendo un sacco di dischi. Donne che in qualche modo ce l’hanno fatta e sono entrate a pieno titolo nello star system anche se troppo spesso nascoste dietro il set della batteria. È vero che la logica del rock’n’roll è del tutto diversa, ma bisogna ammettere che c’è una certa uguaglianza in questo mondo. Nel Jazz moderno com’è la situazione? E in Italia in particolare?
La situazione è molto diversa nel jazz, purtroppo, soprattutto in Italia. In altri stili, seppure la strada non sia facile, la presenza delle artiste che hai citato (più molte altre), ha aperto maggiori possibilità.
Il jazz è ancora pensato come un genere maschile e maschilista, in cui soprattutto la leadership spetta all’uomo.
Figuriamoci poi su uno strumento di “comando” come la batteria. Tante volte ho sentito dire, purtroppo anche a musicisti attuali, “il jazz è maschio”. Basti pensare alle origini. Il jazz tradizionale era ed è fortemente maschilista, a partire dagli anni della seconda guerra mondiale e anche prima.
Molte donne non sono neppure ricordate (fatta eccezione donne cantanti): Valaida Snow ad esempio era un eccellente trombettista degli anni ‘20 ‘30. Era talmente brava che si diceva facesse concorrenza a Louis Armstrong ed infatti veniva chiamata “Lady Louis”.
Ma non si conosceva e non si conosce. E in ogni caso non con il proprio nome.
Nel jazz moderno ancora di più. Potrei citarti tantissime brave musiciste sconosciute che hanno mollato davanti alle difficoltà o hanno preferito dedicarsi ad altri generi.
Purtroppo non è detto e non è dovuto che un’ottima musicista sia anche forte di carattere: dovrebbe vincere il merito e l’arte.
Negli USA le batteriste Terry Lee Carrington e Kimberly Thompson tengono alta la bandiera e hanno anche creato delle realtà a sostegno delle donne musiciste e batteriste.
Ma c’è sempre molto ancora da fare. In Italia siamo solo due/tre batteriste jazz professioniste.
Io per affrontare il problema mi sono inventata un piccolo festival in collaborazione con Mulab, un’associazione culturale di Roma, dal nome WINjazz (Women in Jazz), che ha già realizzato due edizioni in Italia e all’estero ed ospitato tante artiste donne, leader di progetti originali nel jazz, con priorità strumentiste e non cantanti.
Donna, batterista, compositrice e impegnata civilmente… Ma in questa avventura hai avuto due uomini al tuo fianco per portare a termine la missione: Pierpaolo Principato e Marco Siniscalco. Perché proprio con loro hai deciso di affrontare questa avventura? Come li hai convinti a far parte del progetto?
La scelta dei musicisti per me è fondamentale, uomini o donne che siano. Quando li scelgo valuto in primis l’aspetto umano, che di conseguenza crea il musicista. Volevo delle persone attente all’insieme. Soliste, aperte, sicure e umili allo stesso tempo.
Marco lo conoscevo da un paio di anni e la sua sicurezza, suono e umanità mi hanno subito convinta, non potevo che scegliere lui! Pierpaolo l’ho chiamato dopo averlo ascoltato e aver parlato con persone che lo conoscevano. Era perfetto per questo progetto: musicale, competente, un bell’animo!
Ho parlato ad entrambi quando ancora c’erano poche composizioni e … si sono fidati. Di me, del mio progetto, delle mie intenzioni, della mia musica. E li ringrazio.
Hanno messo a disposizione il loro tempo e le loro competenze e mi hanno supportata in sala su alcuni arrangiamenti, idee, proposte, strutture. Se il progetto funziona e arriva è frutto di tutti e tre.
Di Damiano Sabuzi Giuliani