Dopo “Acqua fredda”, adattamento italiano di “Cold Water”, autorizzato ed elogiato dall’autore in persona Tom Waits, Nicolò Piccinni torna con il suo terzo album in studio; un’opera multimediale che è un disco, un libro di racconti e illustrazioni, edito da Morsi Editore, e una raccolta di video prodotti dallo studio cinematografico Fuoricampo, tutti accomunati dal tema della dimensione virtuale.
Dodici brani che si espandono tra le coordinate del cantautorato e della sperimentazione con i featuring di artiste e artisti come Bunna degli Africa Unite, Fausia, Rossana De Pace, Giulia Impache, Vea, Protto e Andrea Boris Borasco. L’album è un viaggio interiore che racconta la perdita e la riscoperta di sé nelle dimensioni virtuali, da internet all’amore, dal sogno alla follia. Dodici canzoni scritte dal cantautore Piccinni, prodotte e arrangiate insieme alla band Gli Internauti, divise in due lati, come in uno specchio: superficie e profondità.
Lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare di questo nuovo ambizioso progetto.
mareAmare è il tuo nuovo concept album, come nasce questo titolo?
Nasce dal bisogno di fare ordine tra le scartoffie digitali che componevano il mio archivio di canzoni, frammenti, idee che avevo raccolto in modo confusionario. Una notte ho deciso di metterci un po’ d’ordine e per gioco ho cominciato a classificare questi frammenti in EP tematici. Un po’ di brani parlavano di animali, “Ballate per bestie”, altri invece parlavano di maschere “Ballate in maschera” e così via. Le più vecchie parlavano del mare. Le più recenti, che curiosità, parlavano di un altro mare: il mare digitale, internet. Un finto mare se vogliamo, un mare che non c’è. Così è diventato “Ballate con mare e senza mare”. Per sintetizzare io e il mio amico poeta Paolo Assandri abbiamo inventato questo titolo “mareAmare”. Si può trovare già tanto in questa parola composta, un po’ strana, inventata, forse un po’ bambinesca ma evocativa.
Oltre all’album hai scritto dodici racconti, raccolti nel libro pubblicato da Morsi Editore. Ogni racconto è legato ad un simbolo del virtuale ed è tradotto in immagine dalle illustrazioni curate dall’artista Sara Zollo.
Sono nati prima i racconti o i brani? Come ti sei confrontato con Sara Zollo nel processo di traduzione visiva dei tuoi concetti?
Prima nascono i suoni, sempre, almeno a me succede così. In questo caso è meglio dire melodia, perchè racchiude già l’idea di una scansione, di un susseguirsi di pezzetti sonori che diventano sillabe e possono poi essere parole. Arrivano queste sequenze melodiche, un po’ come se le acchiappassi nell’aria. Poi da lì prendono forma delle strutture, delle intuizioni ritmiche e così via. Tutto ciò per dire che sono nate prima le canzoni. Mi piace pensare che essendo acchiappate in giro (da qualche parte, sì, ma chi sa da dove arrivano?) queste canzoni io stesso debba capirle, e non è che ci riesca razionalmente, è più una comprensione emotiva. Così ho iniziato a scrivere in prosa creando dei personaggi, per esplorare meglio le canzoni, comprenderle meglio. Così facendo ho allargato ancora di più il mondo di “mareAmare” che ora non era più solo un album, ma anche un libro di racconti. Ogni capitolo è formato da una canzone e da un racconto, legati da un simbolo comune. Tutto ciò si è potuto realizzare grazie a Morsi Editore, e grazie sopra ogni cosa a Giulia Pavani, che ha anche avuto il merito di pensare immediatamente a Sara Zollo per illustrare i simboli, per sintetizzare visivamente le canzoni e i racconti. Ho incontrato Sara, che aveva ascoltato l’album per intero e letto i racconti, ci siamo fatti una chiacchierata. Non le ho dato particolari indicazioni, giusto qualche suggestione: ho voluto che interpretasse a suo modo quei simboli, quei racconti e quelle canzoni. Pur utilizzando linguaggi diversi io e lei condividiamo una certa predisposizione al simbolismo, per cui è diventato naturale capirsi. Senza spiegarle nulla è stata in grado di cogliere delle connessioni che avevo piazzato qua e là, ma soprattutto ne ha create di sue per me inaspettate, imprevedibili. Sara è un’artista eccezionale, ha fatto un lavoro stupendo.
Hai parlato di mareAmare come di un viaggio che ti ha aiutato a capire meglio te stesso. Cosa hai scoperto su di te durante la creazione di questo album? Ci sono stati momenti di particolare epifania o difficoltà?
Si parla di un percorso lungo sette anni circa. Nel mezzo sono successe tantissime cose, anche artisticamente. L’arte indipendente è faccenda complicata, c’è una libertà indescrivibile e allo stesso tempo si fa una fatica a volte intollerabile nel continuare a difenderla. Per fortuna non ero da solo. Dopo la scrittura delle canzoni, che è stato un atto solitario, l’album si è sviluppato con un approccio collettivo insieme alla mia band Gli Internauti. L’avventura è stata bellissima e divertentissima grazie alla loro presenza, ognuno ha inserito un pezzo inestimabile formando il “tutto” così come potete ascoltarlo, e hanno reso la fatica meno faticosa. Anche la scrittura dei racconti è stata una questione individuale, ma ho avuto un confronto costante con mia moglie Letizia, che mi ha aiutato a scartare delle idee, a rafforzarne altre, in un continuo scambio. È stata fondamentale.
Qual è stato il ruolo delle collaborazioni con altri artisti nell’evoluzione di mareAmare? In particolare, com’è stato lavorare con voci e influenze diverse, come quelle di Bunna, Fausia, Rossana De Pace e gli altri?
Quello è stato un passaggio che ha rappresentato un’ulteriore svolta. Bisogna dire che l’album è come una tela che è stata dipinta e ridipinta almeno tre o quattro volte. Ci sono tanti strati, tante fasi di registrazioni. Nelle versioni finali delle canzoni abbiamo tenuto suoni o strumenti che erano presenti già nei primissimi provini grezzi, per esempio. Altri li abbiamo rivoluzionati invece, anche nella fase di mix. Abbiamo registrato ovunque, in tre studi di registrazione diversi, in case sparse dall’alta Val di Susa alla campagna toscana, soprattutto grazie al lavoro di presa degli Internauti Federico Bertaccini e Francesco Cornaglia. Durante la scrittura dei racconti, che sono narrati in prima persona e tutti da personaggi diversi, mi sono reso conto che c’era bisogno di avere delle voci diverse dalla mia anche nelle canzoni. Così abbiamo coinvolto altre artiste e artisti come Bunna, Rossana de Pace, Stefania Tasca, Liana Marino, Giulia Impache, Vea, persone per cui nutro una profonda stima e che hanno dato un’impronta diversa ad ogni brano. Dato che si tratta di un concept album diviso in due parti, due lati, alla fine c’era bisogno di qualcuno che prendesse tutto questo impasto sonoro eterogeneo e gli infondesse una continuità riconoscibile: qui interviene il lavoro magistrale di Andrea De Carlo in fase di mix e di Michele Nicolino nel master. Un bellissimo lavoro di squadra.
L’album contiene anche un brano strumentale come Pesce Nero. Qual è il significato di questa traccia, e cosa ha significato per te non usare parole in questo caso?
È molto interessante, i primi tre pezzi del lato B sono i pezzi più recenti a livello cronologico di scrittura. A vederle sotto questa prospettiva si possono considerare come un trittico della disintegrazione verbale. Si va da un flusso devastante di parole in “Malladrone”, che è la prima canzone, passando per “Il Pozzo” che ne ha poche ma incastrate in un meccanismo di ripetizione ossessiva. Infine si arriva alla terza che è “Pesce nero”, che è nata come uno sfogo musicale diviso in tre tempi e scandito da tempi diversi (4/4, 7/4 e 5/4). Ammetto che dopo averla scritta, suonandola quasi di getto, ho cercato di metterci un testo. Ma proprio perchè di solito le mie canzoni nascono dalla melodia, in questo caso era troppo tardi! Evidentemente c’era bisogno di pura musica. Andamento e suono. Ho accettato quindi che le parole si dissolvessero dentro il pozzo e che quest’ombra nuotasse in silenzio nell’oscurità.
Quali sono i tuoi obiettivi nel connettere la musica con altri linguaggi artistici, come i racconti e il video lyrics? Come immagini che l’ascoltatore possa “entrare” in quest’opera complessa?
Probabilmente come ci sono entrato io, un po’ per caso, senza pretese di trovare chissà quali risposte. Sia la forma che il contenuto di “mareAmare” appartengono profondamente ai nostri giorni: è un’opera multimediale su un labirinto in cui l’unico obiettivo è perdersi e godersi il viaggio. Ognuno e ognuna può trovarci ciò che vuole tra i due estremi, tra superficie e profondità, tra bonaccia e tempesta, tra il naufragare e il riemergere. In mezzo c’è tutto, ma quel tutto sta a chi ascolta, a chi naviga.
Come hai vissuto la difficoltà di non trovare risposte definitive nel labirinto che hai creato con mareAmare? Credi che l’arte debba rispondere alle domande della vita o sia più un mezzo per esplorarle senza soluzione finale?
Penso che se anche ci fosse un unico senso all’esistenza, che vada bene per tutti e tutte, per assurdo lo scopo dell’arte sarebbe di elogiarlo infinitamente e metterlo in dubbio allo stesso tempo, ma di certo non di spiegarlo razionalmente. A volte per qualcuno o qualcuna, in un certo momento della propria vita o in un certo luogo, l’esistenza non ha affatto un senso. Allora lo scopo dell’arte in quel frangente potrebbe essere quello di ritrovarlo quel senso, di lanciarlo come un salvagente. Ma anche lì, l’arte non lo spiegherebbe mai totalmente. Te lo lancerebbe e basta. La soluzione finale potrebbe essere accettarlo e continuare a esplorare lo spazio e il tempo tra quei due estremi di cui si parlava sopra, senza verità assolute. Questo non vuol dire che sia semplice o che io riesca ad accettarlo con serenità. L’opera mareAmare parla esattamente di questo percorso di accettazione. Creare il labirinto, viaggiarci dentro, mi ha lasciato emozioni autentiche e spero possa lasciarle anche agli altri che ci viaggeranno.