Dj, beatmaker, ma soprattutto rapper torinese, Mauràs torna sulle scene con un nuovo album: il nono della sua carriera, il primo come Mauràs, il primo da solista.
Dico sempre la verità è una bomba di rap montato su influenze diversissime fra loro, tra fiati, chitarre rock e batterie acustiche.
Ecco un nuovo inizio, quindi, che segna certamente una fase di consolidamento artistico di Mauràs, sancite da collaborazioni importantissime: il disco è infatti firmato da Bonnot, storico producer, e vedere featuring con Frank Sativa, Inoki Ness e Willie Peyote, oltre che la presenza alle batterie di Enrico Matta aka Ninja ed Ermanno Fabbri alle chitarre.
“Dico sempre la verità” è il tuo primo album da solista, ma soprattutto è il primo album in cui tu ti sei dedicato totalmente alla scrittura. Ci racconti com’è andata? Lo rifarai?
Parto dalla fine: sicuramente lo rifarò! Andrò avanti per questa strada, anche se continuo a lavorare con le basi e le produzioni. Una volta incontrato Bonnot e aver fatto questa esperienza, però, ho trovato la mia comfort zone!
Non è il mio primo album in assoluto, ma il mio primo come Mauràs: non lo voglio contare insieme agli altri. Ora mi sento artisticamente completo e nell’età giusta per intraprendere un percorso consolidato. È un disco che mi piacerebbe ascoltassero tutti.
Hai alle spalle più di vent’anni di carriera, in diverse formazioni. Dagli esordi con i Funk Famiglia, alla produzione per Willie Peyote. La cosa bella è che ad ogni cambiamento fatto corrisponde una tua nuova sperimentazione. Reggae, soul, hip hop…
In questo album si trovano infatti tutti i me del passato, tutte le mie cose vecchie fatte bene. Ho iniziato facendo squadra con le altre realtà locali di Torino, la band mi ha aiutato moltissimo: ho imparato a stare sul palco, tante cose. Ho avuto una gavetta enorme… Un gavettone!
Tu parli di fare squadra… Un mindset legato a un certo tipo di musica, ma che oggi forse è meno diffuso. Tu vieni da Torino, una città che negli anni ‘90/2000 ci ha sempre insegnato cosa vuol dire underground e ci ha regalato grandi soddisfazioni musicali. Com’è lì la scena oggi?
Dal punto di vista della qualità della vita Torino è irrespirabile, me ne vorrei andare! Invece dal punto di vista musicale è sempre piena di gente che suona. Questo nonostante impedimenti e casini vari, è super positivo! Ci sono un sacco di festival e di realtà: puoi trovare ogni genere ti interessi. Il rovescio della medagli è che la competizione è più alta e il torinese non è famoso per essere socievole e caloroso…
Oggi sono nostalgica, quindi te la butto lì così. Di rap ne hai macinato negli anni… Poi il tuo disco è prodotto da Bonnot, producer degli Assalti Frontali. Quali sono i tuoi ricordi del periodo clou della scena rap romana, quello di Piotta, Primo, Cor Veleno…
A Roma in quel periodo ci sono stato due o tre volte: la Golden Age! Facevo da dj in quel periodo, con gli Atipici. Ad esempio, sono venuto per il Jaime… Ho conosciuto Ghemon, con cui ci scrivevamo su MySpace, un giovanissimo Rancore macchina da freestyle… I Colle non li conosco, ma sono stati la nostra colonna sonora. Roma è da sempre una scena viva, insieme a Bologna, Torino e Napoli, che ha creato degli stili specifici. C’erano mille crew e spaccavano tutte! E c’erano mille serate, sempre piene, gente ovunque!
Personalmente ho adorato Capitalunedì, perché ha un testo in cui è impossibile non riconoscere che è effettivamente così. L’evidenza che tutto questo capita effettivamente ogni singolo cacchio di lunedì. E parli dinamiche, come quella da bar, in cui alla fine ognuno è un super esperto e dà consigli spesso non richiesti. Ma alla fine, aggiungerei, è sempre seduto su quella sedia, ogni lunedì. Alla luce di questo e delle chiacchierate che ci siamo fatti: tu ci credi nel ruolo della musica come veicolo di messaggi importanti e, magari, come strumento per scuotere la gente? O è tutto finito con gli anni ’70?
Allora, io ci credo perché non so fare altro. Non riesco a fare musica senza quella dinamica lì. Ammetto però che al momento chi fa la scelta opposta ne trae più beneficio. Lo noto anche sui social, che uso un po’ per provocare e farmi un’idea di cosa pensa la gente. Fra chi ascolta rap c’è una grande confusione rispetto alle origini di questo genere, ma anche nei nuovi artisti. È tutto molto di sistema e autoreferenziale. Il rap dovrebbe rompere un po’ le palle! Magari con forme diverse da quelle degli anni ’80. In ogni caso, io non so fare altro e non lo vorrei nemmeno fare.
Dal punto di vista del suono, l’album si contraddistingue per andare controcorrente rispetto alle mode. In un momento in cui impera il minimalismo, tu e Bonnot ci proponete bassi funk, batterie acustiche, chitarre… Come mai questa scelta ed è stata tua o di Bonnot?
Arriviamo entrambi dallo stesso background. Ad esempio, il mio gruppo preferito sono gli Oasis, in cui trovo un lato che non trovo più nel rap. In studio avevamo l’imbarazzo della scelta! Vedendo un po’ che persona sono io, lui ha creato un tessuto sonoro che riprende le nostre radici, ma che allo stesso tempo mi esalta e mi mette a mio agio. È uscita una cosa di cui siamo contentissimi, abbiamo fatto di tutto tranne pezzi “scuri”. Abbiamo messo su qualcosa che divertisse la gente!
Le canzoni che affrontano tematiche più pesanti hanno infatti melodie più leggere, tipo Majorana: testo tosto ma sonorità chill out. Poi Bonnot ha usato le chitarre come si fa nel rock e nel punk, il muro di chitarre… Metti anche che Ermanno, il chitarrista, è un mostro…