Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Kublai, alterego del cantante e musicista di stanza a Milano Teo Manzo, che con questo progetto riparte in qualche modo da zero.
Kublai deve il suo nome all’omonimo imperatore mongolo del XIII secolo, nipote del più celebre Gengis Khan. L’immagine che il titolo vuole suggerire è dunque quella di un “figlio d’arte”, chiamato a dimostrarsi all’altezza dei suoi predecessori, e qui raccontato attraverso l’amicizia con Marco Polo, che lo ha conosciuto nei suoi viaggi orientali.
Due personaggi, Marco e Kublai, nati agli antipodi, ma uniti dalla stessa solitudine. Marco, però, è sempre in viaggio, mentre Kublai vive segregato nei giardini del palazzo imperiale e non conosce le meraviglie del suo regno sterminato. Marco, ogni volta che ritorna nella capitale, gliene racconta una.
Così, parafrasando il loro rapporto, l’intero album non è altro che un dialogo tra due amici che passano una serata insieme. L’uno irrequieto e sempre in movimento; l’altro inerte, al punto di preferire, infine, il suicidio.
Partiamo proprio dalle basi, come ti sei avvicinato agli eventi storici che ti hanno portato alla particolare scelta di chiamarti Kublai?
L’idea è presa da Le città invisibili di Italo Calvino, dove incontriamo un Kublai letterario, quindi certamente non fedele al personaggio storico. In verità, questo nome l’ho scelto come titolo per l’album, solo successivamente ho deciso di assumerlo anche come pseudonimo.
Kublai viene descritto come un sovrano rinchiuso nel suo palazzo, ignaro delle meraviglie che restano all’esterno, eppure curioso a riguardo. Sei così anche tu?
Certamente passo molte ore a suonare in casa, che non è ancora un palazzo, ahimè. Per quanto riguarda la curiosità, penso che qualunque attività creativa ti costringa a interessarti al circostante. Gli artisti autarchici non mi piacciono, quindi diciamo che mi sforzo di non esserlo.
Ci parli della tua collaborazione con Filippo Slaviero? In che modo ha influenzato il tuo lavoro, e in che modo l’ha capito?
L’incontro con Filippo è stato determinante, lui nel suo percorso si è molto specializzato sull’elettronica pura, ma come me ha un background piuttosto vario.
Lavorare in due aiuta molto a uscire dall’autarchia di cui sopra, e con lui ho scelto di procedere con un criterio di necessità: se uno fa A, l’altro non può che rispondere B.
In questo modo la composizione segue un flow, che può portare in luoghi imprevisti. Poi, credo che la musica è spesso catalogabile tra i generi di lusso, non necessari per definizione. Kublai, per lo meno, sarà un disco pieno di necessità.
Il tuo è un cantautorato davvero atipico per la scena italiana, hai qualche riferimento estero particolare al quale potremmo ritenerti simile per mood o per genere?
Sono molto legato all’età dell’oro del cantautorato italiano, ma anche per questo ho molte riserve a definire cantautorato la musica di Kublai.
I principi da cui muove questo progetto sono per certi versi opposti a quelli da cui ancora dipende la musica nostrana; uno su tutti è l’ipertrofia del testo rispetto a tutto il resto.
Nel mio progetto vorrei non abusare della parola e ricondurre il canto a una dimensione di necessità. Comunque sia, non ho artisti particolari di riferimento, preferisco lasciare i paragoni a chi ascolta.
Perché è difficile fare musica e perché si continua a farla?
Non saprei, non trovo personalmente difficile fare musica. Non è scontato camparci, ma è un altro discorso. Se uno ci vuole campare si organizza e più o meno ci campa, viviamo comunque in un contesto economico privilegiato.
Sul perché si continua a farla non saprei, come dicevo non considero tutta la musica necessaria. Sono uno di quelli che pensa che si potrebbe benissimo farne di meno.
A chi dice che c’è più musica che ascoltatori, cosa diciamo?
Dipende dagli argomenti che porta a corredo di questa tesi, detto così rischia di sembrare un luogo comune. Però, se è importante pensare prima di parlare, non vedo perché non farlo anche prima di cantare.
Cosa c’è nel futuro di Kublai?
Vorrei replicare questo esperimento creativo, magari coinvolgendo altre persone nella composizione. E poi portare dal vivo questo disco, mi sento soprattutto un cantante, l’aria tra me è chi ascolta è qualcosa di vitale per questo progetto.
di Smoking Area