Riferimenti all’archivistica tedesca e nuove consapevolezze: con uno sguardo al passato e i piedi ben fissi nel presente torna dopo due anni Brenneke, nome d’arte di Edoardo Frasso, cantautore dal sound pop con una vena amara e introspettiva.
L’ho incontrato per parlare di “Compleanno”, il suo nuovo singolo fuori dal 13 novembre per Vetrodischi, e per farmi raccontare come ha passato questo periodo lontano dalla scena musicale.
Ciao Edoardo! Come mai hai scelto proprio Brenneke come nome d’arte?
Ciao ragazzi! Il nome Brenneke è arrivato anni fa un po’ per magia. Era il nome di un archivista tedesco dei primi del ‘900 in cui mi ero imbattuto durante i miei studi. Mi piaceva perché aveva una k, era teutonico, sembrava provenire da un passato lontano. Aveva un che di misterioso. Il volto del vero Brenneke (che io sappia l’unica sua foto esistente) è poi finito sulla copertina del mio primo EP, nel 2013.
Quali sono state, durante infanzia e adolescenza, le tue influenze musicali?
Il mio vero e proprio primo incontro con la musica è avvenuto nel 2000 con gli U2, di cui sono diventato in adolescenza (e sono tutt’ora) un tuttologo ossessionato. In quegli anni di base sono sempre stato soprattutto un chitarrista e ho amato tutti i miti della chitarra rock blues. Ho studiato a lungo anche il Jazz. Assorbivo però intanto tutto quello che offriva il lato underground di MTV. Ero davvero attirato da Afterhours, Verdena, Marlene Kuntz, Bugo e quel genere di cose, anche se all’epoca era molto meno immediato di oggi trovare informazioni a riguardo. La musica alternativa sembrava un mondo massonico che non voleva farsi realmente capire, in cui potevano accedere solo alcuni. Era meraviglioso. Poi a 18 anni, mentre ero in Irlanda, mi sono caduti dal cielo gli “Why?”, collettivo Indie/Pop/Rap californiano che mi ha sparpagliato definitivamente le idee.
E’ da pochissimo uscito il tuo nuovo singolo, “Compleanno”; cosa ti ha spinto a scriverlo? Qual è stata l’idea che ti ha ispirato?
Compleanno è nata parecchi mesi fa, volevo scrivere una canzone che cogliesse quel momento in cui ti rendi conto che di anno in anno le cose cambiano e non cambiano insieme. In cui ti domandi che significato hanno avuto gli intrecci della tua vita con quella di altre persone che magari non senti neanche più. Volevo riportare in musica quella sensazione di quando, parlando del più e del meno, citi qualcuno di cui ti eri scordato e ti chiedi “chissà che fine ha fatto”. C’è dell’amara ironia ma anche della presa di consapevolezza.
Il compleanno è un giorno strano. Se ci pensi la canzone più cantata della storia è probabilmente “Tanti auguri a te” e nelle sue parole può essere letta una bella dose di sfottò del tipo: “auguri eh”. C’è un che di tragicomico. La canzone nasce da queste riflessioni.
Nel brano canti “Sono così diverso, non me lo chiedo spesso cosa sembro adesso”. E’ cambiato qualcosa anche nel tuo approccio alla musica, rispetto al tuo scorso disco?
In due anni sono cambiate tante cose, il grosso senza che me ne accorgessi. Il mio disco precedente era stato scritto in larga parte con un approccio a volte quasi sperimentale. Facevo venir fuori le canzoni jammando sulle loop station o producendo direttamente al computer, creando immaginari musicali più che canzoni. E’ un modo di lavorare che mi piace ancora, ma quando ho iniziato a mettere da parte pezzi per questo disco mi è venuto spontaneo dare la precedenza alla forma canzone, quindi componendo direttamente alla chitarra o al pianoforte. Come ci si aspetterebbe che facesse un “cantautore” insomma. Nella realizzazione del disco vero e proprio poi la grande differenza è che ci sono stati molti collaboratori ad aiutarmi a mettere a fuoco mondi sonori e arrangiamenti, su tutti Matteo De Marinis, che è anche il mio batterista.
Il disco precedente si chiamava “Vademecum del perfetto me”; quali caratteristiche volevi avesse il perfetto te di due anni fa, e quali invece senti di avere ad oggi?
Penso che il “me artistico” di quel disco stesse giungendo a patti con l’imperfezione, quasi mettendo in mostra i difetti. E’ un disco che tutt’ora suona piacevolmente sgraziato qua e là, ed era esattamente quello che cercavamo di ottenere. Ma era un disco un po’ “timido”, sia a livello di scrittura sia a livello di produzione. Questa volta ho provato, anche per via dei numerosi concerti suonati tra il 2016 e il 2017, ad evidenziare soprattutto i miei punti di forza. Credo ne sia venuto fuori un disco molto compatto. Il che è paradossale considerato che la sua realizzazione è stata tutt’altro che lineare.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Hai in cantiere qualche data, e magari il disco?
Con Vetrodischi, la bellissima e neonata etichetta con cui sto lavorando, stiamo pianificando un 2019 davvero esplosivo. Posso solo dire che nei prossimi mesi, anzi nelle prossime settimane, avverranno cose meravigliose che coinvolgeranno tutti.
Io ti ho scoperto proprio in versione live, chitarra e voce. Nelle prossime date riproporrai questa modalità o sarai accompagnato da una band?
Proprio ora io e la mia nuova band stiamo preparando un live set che non vediamo l’ora di portare sui palchi. Sto affrontando un modo di approcciare il live che non avevo mai sperimentato e sento che le canzoni hanno proprio il vestito giusto. Intanto farò qualche concerto di riscaldamento, chitarra e voce, per ritrovare la confidenza con le canzoni e con il palco.
C’è un artista con cui ti piacerebbe collaborare?
Ce ne sono tantissimi, ma su tutti direi Niccolò Contessa.
Ultima domanda: il disco del momento che proprio non possiamo perderci?
Più che disco mi viene in mente una canzone: il nuovo singolo de La Rappresentante di Lista, Questo Corpo. Consiglio a tutti di andare ad ascoltarla aspettando con ansia il loro nuovo disco come lo aspetto io.
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