Terzo episodio
Vivo per la prima volta
Vivo per la prima volta. Tutto quello che sono stato non conta, è un ammasso di ricordi confusi e brecce stanche di coscienza. Ora sono a casa di Ted, nella sua lavanderia, ad ascoltare a palla il disco postumo dei Nirvana appena uscito e prontamente rubato a suo fratello maggiore. Me lo faccio masterizzare, Ted è l’unico che conosca che abbia un masterizzatore. Ma prima mette il cd nello stereo e schiaccia play dimenticandosi di abbassare il volume impostato al massimo. È così che Smells like teen spirit entra nella mia vita, assordandomi per una decina di minuti. Ma che botta, sono in estasi. Non ho ancora mai fumato una canna o qualsiasi altra cosa, nemmeno mai scopato – cosa che tutti dicono essere fantastica –, ma mi sento già in paradiso, anzi, nel nirvana.
Non lo so spiegare come mi sento, perché finalmente mi sento. Prima non mi sentivo, semplicemente mi vergognavo di esistere. Ora il dolore inspiegabile che mi porto dentro ha una valvola di sfogo, che in realtà è molto di più, è un riconoscersi parte di qualcosa, scoprire che al mondo c’è qualcuno che si sente come te. E non so perché sono sicuro di questo, che ne so io se Kurt si sentiva come me? Boh, lo sento e basta. E fatevelo bastare anche voi. Ho trovato una cosa pura in una vita che odio. Odio tutto. Odio questa città di personcine per bene con l’arbre magic in macchina e i loro impiastri di figli pronti a ereditare i loro imperi, odio i professori che pensano di sapere chi sono e invece non sanno un cazzo, odio i miei compagni di classe che mi credono un ritardato, odio anche i miei genitori, pur volendo loro bene, perché so che non possono capire il mostro che hanno creato. Mia madre, ventenne ribelle, scappò dalla sua famiglia e dal suo paese, maledicendoli, per seguire mio padre in Italia e poi emigrare nella snob e affaccendata provincia del nord. Risultato: odio fino al midollo i miei parenti (che se non in rari casi non mi hanno mai fatto sentire parte della famiglia) e chiunque abbia anche solo una parvenza di radici. Io non so chi cazzo sono, perché sono nato in questo buco di cesso. E lo so che non è un buco di cesso, perché i buchi di cesso del mondo li avrei visti coi miei occhi parecchi anni dopo, ma non era il mio buco di cesso, non mi sentivo parte di esso. E odio pure i miei fratelli grandi, che mi hanno fatto da secondi genitori per poi sparire nel nulla, da un giorno all’altro, per fare la loro vita. Giusto così, forse. Ma io li odio lo stesso, anche perché mi hanno sempre fatto sentire piccolo, ma non solo di età, piccolo dentro.
Se c’è una cosa al mondo che non si può quantificare quella è il dolore. Ne ho abbastanza di chi sa tutto e si permette di giudicare. Il dolore è dolore, e voi non ne sapete un cazzo. Perché Kurt si è sparato in bocca? Ma se aveva tutto? La musica, il successo, i soldi, una figlia. Questa storia mi devasta. Mi segna. Imparo a rispettare il dolore e a sentirmelo addosso. Tutto il dolore nel mondo. Che si esprime in me, quindicenne disadattato, nel rifiuto dell’ipocrisia e della piatta quiete di questa provincia malata. Lo ficco tutto in una chitarra, l’unico universo che può contenerlo.
Già, una chitarra. Ad averla una chitarra. Perché dal primo momento in cui ho trovato il mio posto nel mondo ho capito che avrei potuto occuparlo soltanto con una chitarra in mano. Non mi basta esistere, voglio vivere, per quanto sia doloroso. Ma ho pur sempre quindici anni e le tasche vuote. Qualcosa da parte, ricordo lontano di qualche natale o compleanno, ce l’ho, ma penso non sarà mai sufficiente per comprare una chitarra elettrica, perché sì, è una chitarra elettrica che mi serve adesso. Nel giro di pochi mesi sono passato dal sognare di saper suonare Battisti in spiaggia a sognare di diventare una rockstar. Non lo so se è normale, ma me ne frega anche poco. Non ho più paura di esprimermi, solo di non avere la possibilità di farlo.
Il destino una volta tanto è dalla mia parte. Il fratello di Ted, proprio quello a cui avevamo già rubato il disco dei Nirvana, sta vendendo la sua chitarra elettrica. È una ciofeca, imitazione cinese della sottomarca della sottomarca della Fender Stratocaster, nera come la morte. La voglio. E con lei regala pure un amplificatore mezzo rotto da dieci watt. Me la cavo con soli cinquanta bolli. Non ci credo: ho una chitarra elettrica. Mi chiudo in mansarda, attacco il jack, alzo il gain e sparo al cielo uno dei pochi accordi che conosco. Il mondo è nelle mie mani. Sogno di conquiste e vittorie, almeno fino a quando una voce proveniente dal fondo delle scale non mi intima di abbassare il volume che hanno appena chiamato i vicini per sapere cosa stesse succedendo. E cosa cazzo vuoi che stia succedendo: è il rock’n’roll, baby.
di Malatesta