Di sabati romani così piovosi come quello di stasera, 2 febbraio, era da un po’ che non se ne vedevano.
Ma non capita tutti i giorni di avere la possibilità di assistere a un concerto di un supergruppo come gli I Hate My Village, oggi di scena al Monk.
Questa nuova band italiana (che però canta in inglese), alla sua prima data, è infatti formata da Alberto Ferrari (Verdena) alla voce e alla chitarra, Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) alla chitarra, Fabio Rondanini (Afterhours, Calibro 35) alla batteria e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) al basso.
Dunque, nonostante tuoni e fulmini, questa sera non possiamo mancare.
Nessun gruppo d’apertura, ma un insolito intro di versi che ricordano un pollaio attende i quattro sul palco – come a prendere le distanze dalla vita urbana, una sorta di metafora che vuole dirci “noi siamo diversi, non suoniamo le solite cose che ascoltate qua in città“.
E in effetti è proprio così. Inizia il live, senza fronzoli, entrando subito nel vivo della serata.
I primi due pezzi, strumentali con qualche innesto di voce usato come quinto strumento aggiunto, riassumono perfettamente la proposta dell’album d’esordio omonimo dei quattro musicisti lanciato da La Tempesta:
riff di chitarra ossessivi, batterie incalzanti – quasi tribali, cambi di ritmo improvvisi, atmosfere desertiche e psichedeliche.
L’intento è quello di tornare alle origini del rock e del blues, recuperando la loro matrice africana, riproponendoli senza dimenticare i decenni di cultura musicale che hanno contraddistinto i percorsi dei quattro.
Pur presentando qualcosa di diverso per il mercato musicale italiano, le loro differenti personalità sono molto evidenti e si rifanno inevitabilmente ai loro trascorsi artistici.
Il terzo pezzo del live è Acquaragia, primo singolo del disco, che risente, come anche altri brani del disco, di influenze neopsichedeliche, alla MGMT per intenderci.
Il concerto prosegue senza soluzione di continuità, solo musica e niente chiacchiere, tra potenti pezzi guidati da una batteria da battaglia, innesti di synth, e chitarre suadenti (una miscela esplosiva di Josh Homme e Bombino) che fanno sognare il deserto, come in Fame e in Tramp.
Tutti elementi che fanno pensare più a un’esperienza sciamanica – esorcizzante e purificante – attraverso la musica, che a un classico concerto rock (sì, fino a quando, nel bis, i quattro non decidono di dare spazio alla loro anima funky con una cover di Don’t Stop ‘Til You Get Enough di Michael Jackson. Sorprendente).
Poco più di un’ora basta per farci capire che in Italia c’è vita oltre alla solita musica. A ricordarcelo, ancora una volta, versi scomposti di galline “di un altro pianeta”.
Il disco di debutto degli I Hate My Village nasce dalla passione comune di Adriano Viterbini e Fabio Rondanini cui si aggiungono Alberto Ferrari e Fabio Fasolo. È un progetto complesso e difficile da catalogare. Ma in Italia abbiamo la mania di catalogare tutto e così il disco è stato promosso a mezzo stampa come ispirato da “musica africana”. Il che significa tutto e niente. Pensate se qualcuno dichiarasse di “fare musica americana”: a parte il comune denominatore della lingua anglosassone, questa definizione difficilmente riuscirebbe a far capire di che stiamo parlando, data la vastità delle sonorità, degli stili e dei sound nativi negli Stati Uniti d’America. Parlare di musica africana è ingannevole. La world music è appena accennata. In questo disco troverete però sicuramente una ricetta unica, fatta di stili, di riff e sonorità che non hanno precedenti. Soprattutto in Italia. Una fusione di rock, blues, folk fino a sfumare nella psichedelia. Insomma, il talento e la passione messa in queste 9 tracce è notevole. Dimostra la capacità della musica italiana di sapersi reinventare in stili e fusioni di sonorità eccellenti che non stancano anzi ipnotizzano l’ascoltatore dall’inizio alla fine del disco. Un disco che va apprezzato e, se avete il piacere di ascoltarlo dal vivo, amato. È la forza del live che rende veramente vivo questo progetto.
Live report di Malatesta , foto Mattia La Torre , recensione di Damiano Sabuzi