Che fascino discreto avevano le vecchie audiocassette? Erano trasparenti, dai!
Ci guardavi dentro e vedevi quel nastro che di tanto in tanto, di bello, se ne usciva all’infuori e con il tappo della penna lo si doveva ficcare al suo posto, usandolo a mo’ di un giravite.
Ci guardavi dentro, capite? Come accade con alcune persone. Ma non tutte, solo alcune. Parlo di tutti coloro che ai tuoi occhi si aprono e ti lasciano fare scorpacciata di loro.
Quelle persone che ami guardare dritte in volto e poi abbracciarle tenendole strette, appoggiando il mento sulle loro spalle e scrutare oltre attraverso le loro pupille. Osservando il mondo coi loro occhi, provandoci quantomeno.
Accade di rado ma voglio dirvi una cosa: se trovate una di queste persone potreste avere fra le mani un’audiocassetta umana. Non scherzo.
Ve le ricordate sì o no quelle scatolette in plastica? Il lato A e con il lato B. Questi umani sono così, con i loro due lati, con i loro due demoni a quattro occhi che vi seguono ovunque andiate, finché andrete.
Di questo vi parlo nel racconto che segue: di una signorina-audiocassetta e dei suoi due lati, dei suoi volti chiamati solitudine.
Ma chi dice che la solitudine suoni male non ha mai messo su questa cassetta. Idioti.
LATO A: Just be simple – Songs of Ohia
La conobbi di notte. O meglio la conobbi, la notte. Perché tale rimase per me per qualche tempo, soltanto un insieme di riflessi della luna sul suo volto mentre mi camminava accanto, sorridendo spezzando in frammenti il rischiarare inutile che intorno ci faceva stringere le anime troppo vicino.
Per uno come me nulla è semplice, neppure guardare una ragazza dritta negli occhi e sentirne il baratro. E fu così. Le sue gambe stavano al mio passo, lei inciampava goffa, rideva e mi gettava in faccia la sua sfacciata solitudine.
Era come se Jason Molina in persona le avesse scritto le rime sul suo bel corpo e i suoi occhi densi recitassero poesie in musica. Si stagliava nel mio imbrunire come una luna piena e bastarda che voleva ululassi in ginocchio mentre si scopriva lentamente la gonna. Ed io ululai, eccome. Urlai fin quando non mi avessero sentito tutti i santi e i morti del paradiso.
Ma se il Paradiso di quei santi bastardi dovesse sul serio scendere qui in terra, qui con me, che ce l’abbia sul serio un infarto.
Perché così mi sentivo e tremavo senza dartene una motivazione che sapesse tenermi gli occhi fermi. Ché ti guardavo il culo, oddio. E mi sentivo sporco e libero come un ragazzino che sentiva il richiamo, quello splendido feticcio che ha la solitudine nuova, fresca come una secchiata d’acqua da cui abbeverarsi.
Mi tenevi la mano e via che mi spingevi lontano e a te vicino, al buio, in questa giostra al riparo dal mondo e sotto la forca della tua notte, laddove corrono fiumane di fantasmi di effimera illusione. Piombò sordido su di me quel fingere di non saperlo neppure un po’ il segreto per cui non smettessi proprio di guardarti il culo e spiare nella tua testa.
È che tu hai tutto quel che non sono e che vorrei avere in questo vivere. Perché dannazione se ci ho provato, fallendo sempre, e allora ho capito di potermene soltanto nutrire scavando negli altri.
La traccia soffoca, la sento che sta per spirare. Ma tu non smettere, aprimi le tue tenebre e prova ancora. A far cosa lo stilettano le poche parole che restano attorno.
To be simple again, just be simple again
Just be simple again, just be simple again
Just be simple again, just be simple again
LATO B: You look like rain – Morphine
Noi umani siamo bestie strane. Prima ci guardiamo e poi entriamo in una danza istrionica, subdola, in un saliscendi di malumori e di terrore.
La chiamano danza della seduzione e ha il suono acido di un sax e la tenera e confortante eccitazione di un basso a due corde.
Più Sandman stupra le sue corde, più sento che le tue idee si svegliano nella mia testa. Le bocche si asciugano insieme. Le mani stridule si affacciano a scoprirci mentre i lampioni mentono e si spengono quando sotto vi passiamo.
La luce fioca oltrepassa i tuoi capelli fini e si spegne fra questi occhi umidi che mi ritrovo in faccia, in tasca, in groppa. E no, non è solo un’erezione, è un dannato colpo al cuore, schiantarsi al suolo al calore tenue della luna mentre fisso ancora il tuo culo e vorrei davvero chiederti che cazzo hai da dirmi ora che mi sei salita addosso e divori la mia mente ed io che mi sento piovere, da dritto in fondo all’anima.
Allora è evidente che non possono essere che lacrime quelle che mi sfiancano il volto mentre ti guardo che assomigli sempre più ad un cielo dalle tonalità di azzurro senza fine. Quella notte te lo dissi che cielo eri, cielo sarai e cielo sei già da ora, ma parlavo e parlavo senza tregua mentre le sfumature della tua solitudine mi schiacciavano.
Fra il tuo seno e il tuo frastuono. Io inerme all’angolo lo capii, non avresti potuto avere mai la stessa tonalità. Mai.
Ma alla fine l’hai voluto tu che ti scrosciassi in testa o l’ho voluto io che tu mi sfociassi fra i costoni di questi occhi umidi?
Perché non ricordo come ci ritrovammo a morire, ma ricordo un bacio e il suo sapore.
Però questa è un’altra storia, è un’altra canzone, tu sei quell’altra canzone e non l’ho scritta di certo io. Ma suona tipo così, dolcemente buia, come una pozzanghera in cui vedo nuovamente il mio volto riflesso:
I can tell you taste like the sky ’cause you look like rain
You look like rain
You look like rain
You look like rain
You look like rain
You look like rain
You look like rain
You look like rain
You look like rain
Comando ripeti, ON
E poi?
E infine nulla. Le tracce finiscono, la musica tace e la notte muore anch’essa senza poterlo evitare.
E ringrazio Dio, il cielo, i miei spettri, quel tuo culo, le mie paranoie che esista quel maledetto tasto rewind.
Perché nella mia testa la musica non smette mai di suonare.