Il grande bluesman statunitense e la sua all star band chiudono la XXIII edizione del Peperoncino Jazz Festival
Scomodare il solito Miles Davis, quando si parla di un suo vecchio collaboratore come Robben Ford, potrebbe apparire scontato, certo, ma spesso è inevitabile. Perché è vero: la musica e la vita sono questioni di stile, come sosteneva l’indimenticato “Principe delle tenebre” del jazz, e Ford ne ha da vendere. Lo ha dimostrato in oltre cinquant’anni di carriera, sviluppando un suono unico in grado di rinnovare con estrema originalità la chitarra blues, sempre più swinging, tra pentatoniche e scale modali, sulla scia del sommo Mike Bloomfield, il suo “ground zero”. Lo ha confermato nell’unica tappa in Calabria del “Dragon Tales Tour”, al Teatro Garden di Rende, inserita nel bel mezzo di una lunga tranche tutta italiana, conclusa ieri a Lucca. Un evento promosso dal Peperoncino Jazz Festival, che già nel 2016 aveva ospitato l’ultimo valzer calabrese del bluesman californiano al Castello Svevo di Cosenza, a pochi mesi di distanza dal suo debutto assoluto in regione per la masterclass al RockOn Martirano Lombardo. Da allora, sono trascorsi otto anni, decisamente troppi, ecco perché il ritorno di Robben Ford non poteva che presentare le stimmate del grande evento. Soprattutto se accompagnato da un quartetto d’eccezione completato dall’ex Level 42 Gary Husband alla batteria, dal plurinominato ai Grammy Larry Goldings (John Scofield e Steve Gadd, tra gli altri) alle tastiere e persino quel Darryl Jones che, dal 1992, ha sostituito Bill Wyman nei Rolling Stones, prestando il suo prezioso basso alle pietre rotolanti dopo esser stato lanciato, poco più che ventenne, dallo stesso Davis.
Un’autentica all star band ora al servizio della Stratocaster di Ford, protagonista assoluto di una serata incentrata non solo sui brani dell’omonimo album in uscita il prossimo anno, ma anche sulla musica di un altro nume tutelare delle sei corde, scomparso, purtroppo, nel gennaio del 2023: Jeff Beck, definito dal chitarrista “un maestro di stile, inconfondibile e super-creativo”. E in effetti, difficile trovare una figura più rivoluzionaria del leggendario bluesman britannico, il cui contributo all’evoluzione della chitarra moderna resta incalcolabile, anche in un panorama, quello del british blues, che negli anni ’60 poteva vantare nomi altisonanti quali Eric Clapton e Peter Green. Tre i brani recuperati dal vasto repertorio di Beck: “Goodbye Pork Pie Hat”, rivisitazione di un classico di Charlie Mingus inserito nel 1976 in “Wired”, e due composizioni agli antipodi ma contenute nel medesimo album, “Jeff Beck’s Guitar Shop”, vincitore di un Grammy nel 1989. Si tratta di “Big Block”, blues-rock vigoroso con cui spingere al massimo i suoni clean della sua Strato ‘66 Custom Shop, e una “Behind The Veil” molto vicina alla versione originale, un reggae sinuoso che, probabilmente, avrà riportato Ford sul viale dei ricordi, a quei curiosi primi approcci con Miles Davis, all’epoca, affascinato anche dai ritmi giamaicani (non esattamente la cup of tea di chi si era costruito una certa fama tra blues e fusion con gli Yellowjackets, no).
A proposito di cover, il lato più pop di un background abbastanza trasversale vien poi fuori con una personalissima rilettura, molto guitar oriented, di “Jealous Guy” di John Lennon, tra i pochi brani cantati, assieme a “Wade In The Water” di Ramsey Lewis e lo straripante funky di “Make My Own Weather”, di un concerto prevalentemente strumentale più votato al jazz che al blues.
È il caso di inediti ricchi di variazioni quali “The Light Fandango”, “What’s In The Phryg” e “Remedy”, impreziositi, in particolare, dal costante interplay tra la chitarra, sempre in primo piano, e le tastiere di Larry Goldings, spesso chiamato a riempire gli stacchi tra un assolo di Ford e l’altro, destreggiandosi tra organo e synth. Sugli scudi, ovviamente, anche la sezione ritmica formata dal duo Jones/Husband, più attenti al groove che ai solismi, ma assolutamente impeccabili se sollecitati a far sfoggio di una classe cristallina mai sopra le righe. In chiusura, l’unico encore della serata, “Octavia”, ultimo atto di un live memorabile accolto con calore ed entusiasmo da tutti i presenti. Fin troppo, a volte, come testimoniato da qualche elemento in prima fila talmente esagitato da rasentare il grottesco, ma questa è un’altra storia.
Al di là delle note di colore, una performance, nel complesso, per palati fini con cui salutare al meglio un’altra edizione stellare targata Peperoncino Jazz Festival, partita a giugno, è bene ricordarlo, con le ormai consuete New York Sessions dirette dal patron Sergio Gimigliano e il grande John Patitucci. Perché, Grande Mela o Rende, poco importa: resta sempre una questione di stile.