Ancora, forte: E Shoegaze sia…
C’era un romanzo che finiva con questa frase: “La musica si sente. La musica non smette mai”, al di là delle differenze tematiche tra il romanzo e questo mio povero e infimo scritto, nulla c’è di più vero in questa frase; immediata, assoluta e definitiva.
A me, utilitaristicamente, serve per fare da trait d’union e introdurre il tema del qui presente articolo e cioè una lente di ingrandimento su quello che accade in Giappone. Un articolo simile l’ho già arrangiato nel mio blog sullo shoegaze e dintorni e allora voi vi chiederete: ma che fai? ricicli gli articoli? No, per niente. Quello era un vademecum, molto generico, qui invece approfondiremo solo due protagonisti scelti a mia discrezione tra la caterva di band shoegaze nipponiche.
Il Giappone è terra fertile musicalmente; fanno tutto, elaborano tutto, imparano tutto e te lo propinano anche meglio per certi versi. Popolo strano, cultura affascinante e inafferrabile.
Provate a chiudere gli occhi e perdervi nella lugubre e spiritica suite di Making of a Cyborg di Kenji Kawai, l’autore della colonna sonora del capolavoro di animazione Ghost in the shell e ditemi se non è qualcosa di innaturale e affascinante. Avrete poi incontrato nella vostra vita, prima o poi, qualche melodia di Riuychi Sakamoto e magari capirete cosa intendo. Mi fermo qui perchè devo, dovrei, parlare di shoegaze e allora delle due, la prima che vi consiglio è probabilmente la band più di culto del sol levante.
Tokyo Shoegazer
Ormai sciolti da una cifra, ci hanno lasciato Crystallize; vera e propria perla del genere e reperibile su you tube per intero. L’album si apre con 299 Addiction, echi dei MBV, ritmiche veloci, chitarre frenetiche e dissonanti. Dalla seconda traccia, Just Alright, tutto si stabilizza e diventa definito, anche le voci. Il capolavoro assoluto è però Bright, brano iconico, ricco di pathos che alterna momenti di caos sonoro a derive marine mattutine. Altro vertice del disco è Waltz Matilda, delicata e fragile fino ad una affascinante deflagrazione.
Pastel Blue
Sono il mio pallino sonoro. Slowdive dagli occhi a mandorla, ma così adolescenziali, così ingenui nelle loro ruffiane e fanciullesche melodie.
Blue Demos del 2010, è un compendio, anch’esso reperibile sul tubo, che ci dà la cifra esatta di questa band, anche perchè qualsiasi cosa su di loro risulta introvabile se non a prezzi osceni.
Non c’è nulla di più pigro e sognante delle loro chitarre, sempre rilassate e ancorate su un mood da sbadigli e occhi stropicciati. Blue Moon è un pezzo paradigmatico: ,elodie inafferrabili e pungenti mentre una voce femminile sotto due tonnellate di riverbero ricama e declama. Ouranos è spaziale e presagisce l’arrivo di astronavi nel cuore di una notte stellata mentre Two Blue Flowers, IL brano dell’album, è un misto tra gli Slowdive di Just for a Day e gli acuti vocali made in Lush. brividi. Un pezzo che campa su due note e due diversi cantati, ma vorresti che non finisse mai. Cerulean invece è Lush fino al midollo senza se e senza ma.
Ora, io avrei finito, ma la butto lì e vi consiglio un’altra mia scoperta recente. Segnatevi questo nome: Nuit. E’ stato pubblicato da poco il loro primo singolo. Nulla da dire perchè promettono e ne parleremo.
p.s.
La frase iniziale dell’articolo è tratta da Musica, di Yukio Mishima. Di Mishima non si dice nulla, si ha da leggere solo.
di Dario Torre