È già passato un mese dall’ultima cassettina: vi è piaciuta? Io continuo ancora ad ascoltare Jamie Saft con una certa affezione, perché è stato il disco che più mi ha colpito.
O meglio, mi ha la colpito il fatto che un disco jazz sia stato interamente apprezzato dal sottoscritto e ascoltato più volte.
L’ho già detto che forse è la vecchiaia? Nel caso, repetita iuvant (questa era una frase che dicevo anche ai tempi del liceo, non c’entra la vecchiaia).
A proposito di gioventù, la mia in particolare e quindi le chitarre: i Black Bog Band sono nel pieno della tardo adolescenza, ciò significa che ragazzi nati tra la fine degli anni 90 e i primi 2000 hanno ancora voglia di sudare sul palco con delle chitarre.
“20060” è il loro Ep d’esordio e l’ascolto lo consiglio soprattutto per le intenzioni che ci sono dietro a dei ragazzi propensi a suonare musica vissuta solo per interposta persona, in un periodo in cui non si capisce granché di che musica ci sia in giro.
C’è tanto su cui lavorare ma se volete sentire un po’ di energia adulta suonata da giovani ragazzi, il consiglio è quello di buttarsi emotivamente e lasciare perdere le sfumature tecniche.
Nata a Lagos, cresciuta a Roma e di stanza a Londra, la potente Shunaji regala uno spaccato di pura contaminazione, figlio del suo vissuto attraverso posti molto diversi che fomentano l’ispirazione di una ragazza con talento e con un flow non da tutti.
Sono i beat del Rap romano e del trip hop inglese (da Bristol, per la precisione) colorati da sonorità palesemente legate alle sue radici (nonostante Lagos sia una discreta città metropolitana).
Mischia l’inglese con l’italiano in alcune canzoni, per un Ep – Midnight Movie – di quattro brani uscito nel 2018 e che preannuncia già un buon cammino, se non ottimo.
Canta il soul, rappa, si muove bene tra atmosfere cupe e vellutate, spinge molto su ritmi dilatati con i quali gioca bene il suo ruolo da scrittrice e cantante versatile.
Da una città di sedici milioni di abitanti all’isola della Sardegna che di abitanti ne fa decisamente di meno.
Lì non c’è il Mississippi ma le lande desolate e il paesaggio, spesso duro, dell’entroterra possono certamente ispirare una certa peculiarità al canto gospel sopra delle corde massacrate da un tubo di ferro.
Andrea Cubeddu è un vero e propio bluesman e lo senti in tutto quello fa all’interno di Weak like a man (quanto blues è questo titolo?).
Se non fossimo nel 2019 potrei tranquillamente dire che ci troviamo difronte ad un disco dell’epoca rimasterizzato, com’è in uso al giorno d’oggi per poter ristampare in vinile.
Non ho intenzione di aggiungere altro perché suonerei retorico e stucchevole ma vi assicuro che non ve ne pentirete.
Dai che sta arrivando la primavera!