Un racconto non richiesto di un concerto troppo grande
Berlino e Parigi sono un po’ le mete migliori per i grandi concerti all’estero: si evita il caos di Londra, sono più economiche dei paesi del nord, vita notturna movimentata, talvolta estrema a seconda dei gusti e dell’umore, e felafel ad ogni angolo. Questa volta è il turno dei Bon Iver a Berlino, celeberrimo e rivoluzinario (si può dire, o si rischia di esagerare?) gruppo messo in piedi dal lead singer Justin Vernon che con ogni probabilità non vedremo mai in Italia nè in questo tour, nè in quelli a venire.
Photo Credit: Yvonne Hartmann by Max-Schmeling Halle official FB page
Sono le classiche chiacchiere da concertari al bar, no? Se Bon Iver [mi dicono sia socialmente accettato anche l’uso del singolare] facesse un concerto in Italia, per quanti lo ascoltano qui, costerebbe ottanta euro e suonerebbe al Fabrique di Milano, che tristezza, a sto punto meglio farsi la vacanza a Berlino!. E come dare torto al generico concertaro al bar. Così eccoci qui, è venerdì 26 ottobre, fa un freddo cane, e io e un paio di amici ci apprestiamo ad entrare in una sorta di Forum di Assago berlinese. Ci fanno compagnia hipster di buona famiglia vestiti da poveri con in mano un iPhone X, biondissime e bellissime ragazze vestite e già pronte per far serata dopo il concerto e inevitabili turisti appena arrivati dall’aeroporto…
Photo Credit: Yvonne Hartmann by Max-Schmeling Halle official FB page
Un’unica coda sia per il parterre che per gli spalti, non si entra con acqua, cibo, accendini, coltelli e macchine fotografiche di alcun tipo. Davanti a noi una ragazza sta cercando di spiegare in un inglese sbilenco che la sua è una Polaroid e anche piuttosto mal funzionante, niente che possa fare foto professionali. Ma niente da fare, non si sfugge. Crediamo di passare tranquilli i controlli, un po’ come fossimo a Malpensa quando, una di noi, di solito quella organizzata, viene trattenuta per uno zainetto di dimensioni ridicole.
Da bravi italiani cerchiamo di contrattare, Non è così grande, da nessuna parte era segnalato un regolamento, abbiamo visto davanti a noi una ragazza con la stessa identica borsa… e a colpi di It’s crazy! alla fine cediamo e facciamo una seconda fila al guardaroba. Alle otto spaccate inizia il concerto, nessun opening a scaldare il palco, tutti gli stranieri disorganizzati e poco consoni alla rigidità tedesca si ritrovano ancora fuori a cercare di eludere i controlli, o in coda per la prima birra. Ci perdiamo inevitabilmente un paio di brani, conquistiamo una buona posizione e una birra annacquata con “715 – Creeks”.
Photo Credit: Yvonne Hartmann by Max-Schmeling Halle official FB page
Può una location, e annessi controlli, uccidere completamente l’atmosfera di un concerto come questo? Sì. Ne stiamo parlando animatamente, che quasi ci dimentichiamo che il concerto è già iniziato. Più che un concerto, di cui già si pregusta un’esecuzione esemplare, perfetta, precisa, e glaciale, sembra una live session di KEXP: poca interazione con il pubblico, cuffie ben salde in testa per tutti i musicisti (che ogni volta che spostiamo lo sguardo sembrano aumentare – Quanto è figo che un gruppo che possiamo definire folk abbia due batterie?), un suono filtrato digitalmente che rende il tutto meravigliosamente fedele al disco e anche tristemente distante. Facciamo paragoni con l’animo che aveva il concerto di Stu Larsen, visto la sera prima, poi facciamo silenzio. Con uno sforzo di concentrazione immenso, entriamo nel vivo del live, una Blood Bank ci devasta, forse ci siamo arrabbiati per niente, forse dovevamo arrivare solo mezz’ora prima, forse è colpa nostra. Bravi sono bravi, suonare sanno suonare, eccome se lo sanno fare, però è tutto il resto che è sbagliato: non c’è calore, non c’è anima, e di conseguenza non c’è nient’altro. Ci stiamo per rilassare quando Justin annuncia solennemente “Facciamo venti minuti di pausa, ci vediamo dopo!”.
Non ha senso.
Photo Credit: Yvonne Hartmann by Max-Schmeling Halle official FB page
Giuriamo di dire basta ai grandi concerti, ne abbiamo visti troppi, e non abbiamo più i nervi per gestirli. Inizia la seconda parte, ma ormai abbiamo perso del tutto il mood, una coppia limona per ingannare l’attesa, gli altri per lo più caricano storie su instagram col palco così distante che potrebbe sembrare qualsiasi concerto. Holocene e Creature Fear ci fanno venire i brividi, sassofoni e tastiere.
Tutto è perfetto, ma anche tristemente sintetico. Pensiamo improvvisamente a che fila immensa potremmo trovare al guardaroba, decidiamo di sacrificare l’encore per evitare di rimanere fino all’una di notte in coda al freddo per recuperare uno zaino. Tanto Skinny Love non la farà mai, giusto?
Siamo seduti per terra, da fuori sentiamo l’ultimo brano esemplare, glaciale, distante come tutto il resto: Skinny Love. Che sfiga.