Pioggia incessante, vento, freddo, fango e gazebo per ripararsi caratterizzano un sabato sera di maggio, un ossimoro di per sé, reso ancora più stridente da quello che si ha davanti appena varcate le porte da saloon del Locomotiv Club.
Un’accoglienza con la riproduzione di una piccola cerimonia del tè verde tuareg, gentilmente offerto da un berbero impassibile nel suo tagelmust, l’aria densa dell’afa e del calore del quasi sold-out.
Una scenografia scarna, fatta solo di luci a gelatina calda che, sfruttando l’intera gamma del rosso, trasporta gli occhi nella sudorazione desertica.
Intorno alle 23 Bombino e band arrivano sul palco, aprendo il concerto con due brani eseguiti in acustico in formazione basso, djembè, chitarra acustica e shekere.
Il cambio palco serve ad evidenziare la timidezza e il carattere introverso di Omar e l’intraprendenza, al contrario, del suo bassista Youba Dia, impreciso a volte ma sicuramente carismatico, al punto da convincere i presenti ad intonare un classico “tanti auguri a te” per il loro manager.
“Timtar” slega le prime e le ultime fila, un crogiolo di movimenti, c’è chi ambisce alla danza del ventre e chi ondeggia senza punti di riferimento visivi, il tamashèq ha preso possesso di lobi, timpani, sorrisi e, per i più temerari, anche delle corde vocali.
Il sound è reso ipnotico dall’eccezionale tappeto ritmico della mano destra di Illias Mohamed Alhassane e dagli assoli di Bombino, in stile hendrixiano, ed è portato magistralmente da Corey Wilhelm. Le chiare striature jazz presenti nel batterista canadese s’intrecciano col blues creando un mix che relega Tinariwen e il principe Ali Farka Tourè a semplici influenze.
Cifra dell’esecuzione di quasi tutti i brani sono le battute ossessive e l’aumento della velocità sul finale, una tachicardia sonora che trasuda passione.
La voce di Bombino è sempre delicata, a tratti sfuggente, dimenticata nei suoi sorrisi imbarazzati dalla devozione della platea.
La scaletta prevedeva brani estratti dall’ultimo lavoro “Azel” e dal precedente “Nomad”, per più di 90′ minuti di live, senza soste e fermate.
Due brani per il bis, la presentazione del gruppo seguita da assoli, che oltre la tecnica esaltano la fantasia dei musicisti, ed una pioggia di applausi chiudono uno dei concerti di più alto livello della stagione, raramente è possibile percepire tanta amarezza e serenità allo stesso tempo.
“Tenere, Hegh tenere“, il deserto, io sono il deserto, canta Bombino.
Una nota a margine per 3 – 4 signore e signorine, radical chic negli abiti e nell’espressione, che hanno pensato bene di trascorrere due ore a comunicarsi la comparsa della loro urina ovvero ad decantare gli ultimi e bridgetjonesiani episodi della loro vita.
Per fortuna posizionate in fondo al pubblico, e dunque di facile aggiramento, non sentiremo la mancanza della squallida sitcom che le vede protagoniste.