Metti una sera fredda e piovosa di un novembre in terre nordiche, un lunedì – non serve aggiungere altro – e l’età che incalza prepotente per cui il tuo corpo ha un’attrazione magnetica verso il divano. Non è esattamente il quadretto di una serata ideale per trascinarsi fuori da casa. A meno che non capiti un evento di straordinario interesse. E il concerto dei Blonde Redhead a L’Aéronef del 27 novembre scorso è esattamente un motivo valido per affrontare il demone dell’apatia invernale.
La band già all’epoca la avevo annoverata tra le piacevoli sorprese. Sicuramente non sono anziani come altri miei beniamini che mi è capitato di vedere dal vivo, ma suonano pur sempre da più di 30 anni e non sono esattamente dei ragazzini. Il compito di aprire la serata viene affidato alla voce calda e sognante di Núria Graham, cantautrice catalana che ci coccola mentre siamo intenti a sbrinarci per essere pronti a una ventata di “nostalgia canaglia” in musica.
Le luci si riaccendono, la gente raddoppia e l’età media pure. Un vociare allegro ma contenuto si diffonde in sala, attendiamo impazienti l’arrivo del gruppo statunitense (d’adozione, notoriamente le origini del gruppo sono giapponesi – Kazu Makino – e italiane – i fratelli gemelli Amedeo e Simone Pace).
Le luci si rispengono e i fari illuminano una scenografia decisamente kitsch davanti la quale irrompono stilosi i tre artisti. L’amico francese, venuto in avanscoperta, mi fa notare che sono entrati senza salutare il pubblico. Ma già dopo qualche pezzo lo vedo preso dall’ascolto, al punto da perdonare loro questo affronto alle buone maniere tanto care ai nostri “cugini” d’oltralpe.
La scaletta fa avanti e indietro nel tempo, proponendo qualche hit del passato come Elephant Woman, 23 e Bipolar, anche se a parte quest’ultima non si spingono oltre il 2004. La maggioranza dei brani, anche quelli suonati durante il bis, appartengono all’ultimo album che mi sembra essere decisamente più pacato rispetto ai lavori precedenti.
Amedeo Pace e Kazu Makino si muovono complici e veloci tra innumerevoli cambi di strumenti, mentre Simone Pace dietro la sua batteria segna il tempo, impassibile come un samurai. L’atmosfera è calda e ritmata, le voci dei cantanti si alternano e quella di Kazu Makino colpisce particolarmente perché, pur non essendo bella secondo canoni classici, sa catalizzare.
E mi perdo in pensieri, muovendomi a ritmo di chitarre distorte e variopinti riff. Molto spesso mi capita di riflettere su quanto sia difficile scrivere di musica. Tradurre in parole quello che vedi e ascolti. Mi trovo sempre in difficoltà, come se stessi facendo la cosa sbagliata. Come se, parlando di musica, stessi ballando di architettura, per citare il caro vecchio Frank Zappa.